I primi dati sull’efficacia dei vaccini anti-Covid sono stati annunciati a fine 2020 dalla casa farmaceutica Pfizer/BioNTech, rapidamente seguita da Moderna, AstraZeneca ed altri. A distanza di alcuni mesi, cominciano a emergere le prime analisi di “real world evidence”, ovvero le analisi dei dati reali raccolti in alcuni dei paesi che hanno vaccinato una parte cospicua della popolazione adulta, come Israele (oltre il 50%) e il Regno Unito, dove la prima dose è stata somministrata ad oltre il 60% degli adulti.
Ma che cosa misura davvero l’efficacia di un vaccino? In questo articolo illustriamo come si calcola ed interpreta questo risultato, quali altri dati sono stati raccolti durante gli studi clinici, e perché è importante analizzare anche i dati provenienti dal mondo reale.
Come si calcola l’efficacia di un vaccino
L’efficacia di un vaccino misura la riduzione del rischio di contrarre l’infezione per la quale è stato sviluppato. I vaccini anti-Covid hanno riportato un’efficacia che varia dal 72% di Johnson & Johnson al 95% di Pfizer/BionTech, come riportato nella figura in basso.
Decine di migliaia di persone sono state arruolate nelle sperimentazioni cliniche dei vaccini sopracitati, per studiarne l’efficacia. In ciascuna sperimentazione, a (circa) metà dei pazienti è stato somministrato il vaccino oggetto di studio, mentre l’altra metà ha ricevuto un placebo. I ricercatori hanno poi registrato il numero di pazienti che ha contratto il Covid-19 durante il periodo di osservazione; la distribuzione dei casi di infezione tra il gruppo che ha ricevuto il vaccino e il gruppo che ha ricevuto il placebo viene utilizzata per calcolare l’efficacia.
Prendiamo la sperimentazione del vaccino Pfizer/BioNTech come esempio: il 50% dei pazienti (21.830 persone) ha ricevuto il vaccino, il restante 50% il placebo. Dopo alcuni mesi di osservazione, 170 partecipanti hanno contratto il virus: 162 di questi appertenevano al gruppo placebo, mentre gli altri 8 erano stati vaccinati. Il rischio di infezione viene calcolato in ciascun gruppo come rapporto tra il numero di casi Covid-19 e il numero di partecipanti, come mostrato nella tabella di seguito.
La differenza di rischio di infezione tra i due gruppi è risultata essere di 0.7 punti percentuali (0.74 – 0.03), un risultato che intuitivamente non sembra molto alto. L’efficacia del vaccino, tuttavia, va calcolata in termini relativi al gruppo placebo: la riduzione di rischio in punti percentuali va quindi rapportata al rischio di infezione del gruppo placebo (0.7/0.74); si ottiene così il risultato dell’efficacia del 95%.
Il vaccino Pfizer/BioNTech è stato preso come esempio, ma l’efficacia è stata calcolata nello stesso modo anche nelle sperimentazioni per gli altri vaccini. Tuttavia, non è quasi mai possibile confrontare direttamente i risultati di due studi clinici diversi, perché non avvengono nelle stesse condizioni; ad esempio, le caratteristiche dei partecipanti potrebbero essere diverse e influenzare i risultati.
Come interpretare l’efficacia
Adesso che abbiamo visto come si calcola l’efficacia di un vaccino, diventa più semplice interpretarla correttamente. Come illustra questo articolo della rivista Lancet, un’efficacia del 95% non significa che in un gruppo di 100.000 persone vaccinate il 5% di esse (5.000 persone) contrarranno il virus.
Questo perché l’efficacia del vaccino non si riferisce a un gruppo di persone, ma al singolo individuo: una persona vaccinata con Pfizer/BioNTech ha circa il 95% di possibilità in meno di contrarre il Covid-19 rispetto a una persona non vaccinata, ogni volta che viene esposta al virus. Quando applichiamo questa logica a un gruppo di 100.000 persone, vediamo che la protezione offerta dai vaccini è molto più alta rispetto a quanto non sembri a prima vista.
Se assumiamo un rischio di infezione dell’1%, in un gruppo di 100.000 pazienti, circa 1.000 contrarranno il virus (per semplificare, non teniamo in considerazione alcuna unità di tempo). Come abbiamo visto precedentemente, l’efficacia esprime la riduzione del rischio di infezione in termini relativi al gruppo dei non vaccinati.
Una riduzione del 95% implica quindi un rischio di infezione pari a 0.05% (il 5% di 1%, come mostra la tabella 2). Se consideriamo di nuovo un gruppo di 100.000 persone, ma questa volta vaccinate, un rischio dello 0.05% si traduce in 50 casi Covid-19. Una differenza significativa con i 5.000 casi calcolati “intuitivamente”.
Ospedalizzazioni e decessi
I vaccini offrono protezione contro il Covid-19 non soltanto riducendo il rischio di contrarre il virus, come descritto nei paragrafi precedenti, ma anche riducendo la severità dei sintomi, e di conseguenza il rischio di ospedalizzazione e decesso. Nonostante ci sia qualche differenza tra i risultati dell’efficacia dei vaccini, c’è un risultato sorprendente che li accomuna: in tutte le sperimentazioni sopracitate nessun paziente vaccinato è stato ospedalizzato per Covid-19, e nessun paziente è morto di Covid-19.
Questo risultato non viene discusso molto spesso, e il motivo principale è che le sperimentazioni cliniche avevano sin dal principio un altro obiettivo principale, ovvero studiare la riduzione del rischio di infezione. I dati su ospedalizzazione e decessi sono stati raccolti, ma questi risultati sono denominati ‘secondari’; non perché meno importanti (del resto, come si potrebbero considerare i decessi secondari?), ma perché si basano su campioni troppo limitati per essere considerati significativi.
Ma com’è possibile, visto che decine di migliaia di persone hanno prese parte a ciascuna sperimentazione? Torniamo all’esempio di Pfizer/BioNTech, dove solo 8 dei pazienti vaccinati hanno contratto il virus. La proporzione di pazienti Covid-19 che presenta sintomi gravi, tali da richiedere il ricovero in ospedale, si aggira intorno al 5-10%, mentre la letalità intorno all’1%.
È dunque possibile che in un numero così esiguo di pazienti (ripetiamo, 8), anche se non vaccinati, non si registrino ospedalizzazioni e decessi, perché, appunto, il rischio di entrambe le cose è già relativamente basso per i non vaccinati. Per questo sarebbero necessarie sperimentazioni cliniche su scala molto più grande, tali da risultare in un numero di pazienti vaccinati e con Covid-19 più elevato. Ed è proprio qui che ci possono venire in aiuto i dati raccolti nel ‘mondo reale’, dove sono già state vaccinate milioni e milioni di persone.
Analisi dei dati ‘reali’
Con ‘dati reali’, ci riferiamo a dati raccolti al di fuori di un setting clinico. In questo caso, invece di efficacia del vaccino, parliamo di efficienza. Se l’efficacia indica la capacità del vaccino di ridurre il rischio di infezione, l’efficienza tiene conto di come agisce il vaccino nel mondo reale, ma si calcola e si interpreta nello stesso modo dell’efficacia; si usa un termine distinto proprio per indicare la diversa provenienza dei dati.
Inoltre, i pazienti arruolati nelle sperimentazioni cliniche devono soddisfare una serie di parametri definiti prima dell’inizio dello studio, per rendere l’analisi imparziale “bilanciando” le caratteristiche dei due gruppi (vaccino e placebo), un passaggio che ovviamente non avviene nel mondo reale.
Per questo, sono necessarie alcune rielaborazione statistiche prima di analizzare i dati reali, che cercano proprio di riprodurre quel bilanciamento tra i due gruppi. Dal momento che durante le sperimentazioni cliniche si seguono protocolli ben definiti, e i pazienti sono monitorati spesso, l’efficienza (dati reali) tende a essere inferiore rispetto all’efficacia (dati degli studi clinici).
Tuttavia, le prime analisi dei dati reali si avvicinano ai risultati di efficacia delle sperimentazioni cliniche. Un recente studio, pubblicato sul New England Journal of Medicine, ha analizzato i dati raccolti nel corso della campagna vaccinale condotta in Israele, confrontando il rischio di infezione, ospedalizzazione e decesso tra due gruppi (vaccinati con Pfizer/BioNTech e non vaccinati) di quasi 600.000 persone ciascuno, per un totale di oltre 1.2 milioni di pazienti.
L’efficienza (da leggere come riduzione del rischio) 7 giorni dopo la seconda dose, è stata del 92% per il totale di infezioni documentate, 94% per i casi sintomatici, e 92% per i casi definiti ‘gravi’, come illustrato nella figura di seguito. La riduzione di rischio di ricovero ospedaliero è stata dell’ 87%, mentre la riduzione del rischio di decesso, calcolata questa volta solo in seguito alla prima dose, è stata del 72%.
In Inghilterra, lo studio SIREN (non ancora pubblicato) ha analizzato i dati di circa 40.000 operatori sanitari vaccinati (con Pfizer/BioNTech o AstraZeneca) tra l’8 dicembre 2020 e il 5 febbraio 2021, riportando un’efficienza del 72% dopo la prima dose, e dell’ 85% dopo la seconda. In Scozia, un altro studio (anch’esso non ancora pubblicato) ha analizzato i dati di circa 5.4 milioni di persone allo scopo di calcolare l’efficienza del vaccino nel ridurre il rischio di ospedalizzazione.
Una riduzione dell’85% e del 94% è stata riportata dopo la prima dose dei vaccini Pfizer/BioNTech e AstraZeneca, rispettivamente, e una riduzione del rischio dell’81% e stata registrata (combinando i dati di entrambi i vaccini) per i pazienti ultraottantenni.
Si tratta quindi di risultati molto incoraggianti (anche se, nel caso dei due studi del Regno Unito, non ancora pubblicati), che forniscono una prima indicazione della capacità dei vaccini di ridurre il rischio non solo di infezione, ma anche di ospedalizzazione e decesso per Covid-19. Rimane da vedere se questi risultati verranno confermati nei mesi a venire, quando la campagna vaccinale sarà ancora più avanzata. Cosa che accadrà, si spera, molto presto.
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