Nel processo di primo grado per l’omicidio di Giulia Cecchettin, il Tribunale di Venezia ha condannato Filippo Turetta non solo all’ergastolo, ma anche al risarcimento di 760mila euro in favore dei famigliari della ragazza uccisa che si sono costituiti parti civili nel procedimento penale.
Nel dettaglio, dovrebbero andare 500mila euro al padre Gino Cecchettin, 100mila ciascuno ai fratelli Davide ed Elena e 30mila euro a testa alla nonna Carla e allo zio Alessio. Si tratta di risarcimenti provvisionali, ossia di cifre provvisorie da pagare immediatamente alle parti lese, in attesa che il giudice civile definisca l’ammontare esatto da riconoscere loro.
Tuttavia è assai improbabile che i parenti di Giulia Cecchettin ricevano per intero quelle somme di denaro. Turetta, 23 anni, cresciuto in una famiglia certo non milionaria, difficilmente oggi dispone un patrimonio personale tale da soddisfare appieno la sentenza del Tribunale.
In carcere potrà svolgere del lavoro retribuito, ma i soldi che guadagnerà serviranno in primis a rimborsare lo Stato per le spese della sua detenzione. E la famiglia Cecchettin non potrà rivalersi sui genitori di Turetta: il ragazzo, infatti, era maggiorenne al momento dell’omicidio e la responsabilità penale è personale, dunque a carico di suo padre e sua madre non c’è nessun obbligo.
Se non saranno risarciti interamente dal condannato, i Cecchettin potrebbero agire nei confronti dello Stato. Qui però si innescherebbe un meccanismo diverso che li porterebbe a incassare solo un indennizzo fisso, più basso rispetto a quanto stabilito dal Tribunale di Venezia.
Come spiega al Corriere della Sera Francesco Centonze, docente di diritto penale all’Università Cattolica, “in carcere il condannato può svolgere attività lavorativa retribuita dalla quale vengono trattenute le spese che lo Stato sostiene per il suo mantenimento”. “Ci sono però da considerare le difficoltà di accesso all’attività lavorativa in carcere e la modesta retribuzione”, fa notare il docente: “Difficile dunque che il detenuto possa effettivamente rimborsare i costi anticipati dallo Stato. Se Turetta non può provvedere personalmente – continua il Centonze – è assai improbabile che quelle somme provvisionali vengano versate”.
Il professor Centonze chiarisce poi perché, nel caso in cui i Cecchettin si rivalessero contro lo Stato, finirebbero per ricevere comunque una somma più bassa rispetto a quella del risarcimento provvisionale: “La direttiva europea 2004/80 – spiega il giurista – prevede l’obbligo per gli Stati membri di assicurare un ristoro equo e adeguato alle vittime di reati violenti nel caso in cui l’autore non possieda le risorse necessarie per ottemperare a una condanna al risarcimento dei danni, oppure non possa essere identificato o perseguito. Ci sono state procedure d’infrazione contro l’Italia e, nel 2020, la Cassazione civile ha riconosciuto la legittimazione ad agire nei confronti dello Stato. In definitiva, secondo questa giurisprudenza, le vittime potranno citare in giudizio lo Stato per richiedere il pagamento di una parte dei danni subiti. Il problema, però, è che i livelli degli importi stabiliti dalla legge sono definiti in maniera fissa e soggetti alle disponibilità del Fondo specificamente istituito dallo Stato e quindi non sono adeguati rispetto ai danni subiti”. “Nel caso in cui l’autore del reato non abbia un proprio patrimonio – conclude il docente – la vittima potrà ottenere solo un indennizzo che, per definizione, è inferiore al risarcimento”.
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