Riceviamo e pubblichiamo di seguito questa lettera inviataci da una lettrice di Trieste e destinata al sindaco del capoluogo giuliano, Roberto Dipiazza, sostenuto dal centrodestra. Il tema è l’ordinanza con cui il primo cittadino ha disposto lo sgombero del Silos, la fatiscente struttura che sorge di fianco alla stazione centrale dove centinaia di migranti vivono in condizioni igienico-sanitarie estremamente precarie.
Egregio Signor Sindaco,
in quanto cittadini vorremmo esporre le nostre rimostranze in merito alle recenti disposizioni sullo sgombero del Silos. Come Lei ben dice, le condizioni igienico-sanitarie e umane all’interno del Silos non sono in alcun modo accettabili. Un’ordinanza di sgombero però, con due settimane di preavviso, senza un piano alternativo a breve e lungo termine, non è la soluzione.
Forse non si è reso conto che quelli a cui fa riferimento sono esseri umani; non sta parlando di un magazzino dal quale devono essere trasferite delle merci. Ha mai provato a parlare con queste persone? Vada a parlare con I., 22 anni, pieno di vita e di sogni, un ragazzo dall’intelligenza invidiabile, che dopo una settimana in Italia sta già imparando la lingua e non vede l’ora di andare a scuola.
Vada a parlare con A., che ieri non è potuto andare a studiare al centro diurno di via Udine (“chaihana” come lo chiamano loro) perché aveva la febbre, dopo aver passato la notte in mezzo all’acqua e al fango del Silos.
Vada a parlare con H., che dorme durante il giorno perché la notte ci sono i ratti che gli mordono i vestiti e la pelle. Perché sì, non so se ci ha mai pensato, ma queste persone hanno dei nomi, delle storie e delle vite. Nessuna di queste persone ha mai avuto il desiderio di ritrovarsi a vivere così. Sono persone che hanno deciso di scappare dal proprio Paese, per imbarcarsi in un viaggio di sola andata, senza avere alcuna certezza per il proprio futuro.
Quanto coraggio, quanta forza deve trovare un essere umano, per prendere una decisione tanto difficile? E io mi chiedo, perché una persona afghana, pakistana, bengalese o egiziana, viene trattata così? Qual è la differenza rispetto ad altri richiedenti asilo? Forse, e dico forse, il colore della pelle? Stiamo dunque dimostrando che, nel 2024, in Italia il razzismo è ancora così radicato e socialmente accettato?
Un mio caro amico l’ha definita “la morte dell’umanità”, e io sono d’accordo con lui. Ma lo sa qual è la cosa più sorprendente di tutte? Vedere i sorrisi sui loro volti e quella scintilla che ancora brilla nei loro occhi. Sembra per me un ossimoro, ogni volta che parlo con I., giovane e pieno di vita, con il suo sorriso scintillante e gentile, pensarlo la notte dentro al Silos, nel buio, al freddo, con topi e scarafaggi in ogni angolo.
È imbarazzante e inumano che queste persone già costrette a vivere tutto questo con un’incredibile resilienza, ora si ritroveranno buttate fuori dall’unico luogo in cui potevano stare. Senza sapere dove andranno, senza i loro amici, senza nessun supporto, abbandonati da un sistema che decide di non considerarli facenti parte del consorzio umano.
Ma una soluzione ci sarebbe, vero sindaco? Sì, sto parlando del mercato chiuso di via Gioia. Questa soluzione tanto semplice sembra però un ostacolo per lei insuperabile. In ultimo, le consiglio una lettura molto interessante: “La società decente” di Avishai Margalit.
Gliene lascio alcuni brevi estratti: «Che cos’è una società decente? […] una società decente è una società le cui istituzioni non umiliano le persone» «L’umiliazione è il rifiuto di un essere umano dalla “famiglia dell’uomo”. Cioè è trattare un umano come non-umano, ovvero mettersi in relazione agli umani come se non fossero umani».
«Il concetto chiave per l’umiliazione è l’esclusione dal consorzio umano. Ma tale esclusione non è basata su una credenza o atteggiamento che la persona esclusa sia meramente un oggetto o un animale. L’esclusione consiste nel comportarsi come se la persona fosse un oggetto o un animale. Tale esclusione tipicamente consiste nel trattare degli umani come subumani».
Sara, Isabella, Mateo