“Per i Riva ci vuole l’ergastolo, come quello a cui l’Ilva ci ha condannato a vita”
“Non esulto di niente e non gioisco di nulla: gli anni che sono stati assegnati ai fratelli Riva e a questi personaggi che non oso neanche definire umani sono nulla in confronto a ciò che noi giornalmente viviamo a Taranto. Da quando è morto nostro figlio il 25 gennaio 2019 siamo stati condannati a un ergastolo a vita che rende l’idea del sentimento che proviamo in questa situazione”.
Per Carla Luccarelli la sentenza con cui oggi la Corte d’Assise di Taranto ha condannato a 20 e 22 anni di reclusione Fabio e Nicola Riva, ex proprietari e amministratori dell’Ilva, per concorso in associazione finalizzata al disastro ambientale, all’avvelenamento di sostanze alimentari e all’omissione dolosa di cautele sui luoghi di lavoro insieme ad altri 47 imputati nell’ambito del processo “Ambiente svenduto” è solo “un piccolo passo”.
Nulla le restituirà il figlio, Giorgio Di Ponzio, morto a Taranto dopo aver contratto un sarcoma raro alla pelle e niente risarcirà il sacrificio di vite umane a cui lo stabilimento siderurgico condanna il capoluogo pugliese da anni, emettendo polveri sottili inquinanti. “È un piccolo tassello vedere una magistratura che finalmente impone qualcosa, ma non esulto. Sentirò qualcosa di diverso quando quella fabbrica sarà chiusa, quando vedremo che ci è resi conto di cosa è stato fatto nella nostra città. Io non voglio la chiusura dell’aria a caldo, quella fabbrica la voglio vedere chiusa, smantellata, voglio vedere bonificato quel pezzo di Taranto che ci hanno tolto per creare solo morte. Il mio unico obiettivo è solo ed esclusivamente quello”, continua.
La Corte d’Assise – con una sentenza non ancora esecutiva e di cui nei prossimi giorni si conosceranno le motivazioni – ha disposto anche la confisca degli impianti dell’area a caldo per il reato di disastro ambientale imputato alla gestione Riva, la condanna a tre anni e mezzo dell’ex presidente della Regione Puglia Nichi Vendola per concussione aggravata in concorso e quella a tre anni dell’ex presidente della provincia di Taranto Gianni Florido. Ma per le madri e gli attivisti di Tamburi e degli altri quartieri che sorgono sotto la fabbrica esiste anche la responsabilità politica dei governi che negli anni si sono succeduti senza porre fine al disastro ambientale e sanitario: secondo l’Istat ogni anno a Taranto sono circa 1.500 le persone che si ammalano di tumore, un dato ben al di sopra della media nazionale.
“Si devono muovere in tanti e con urgenza, questa situazione va avanti da troppi anni. Mi sembra un’eterna emergenza sulla quale non si sono mai prese decisioni serie. Hanno fatto sempre il passaggio di consegna da un governo all’altro buttandosi la colpa addosso. Tutto questo non ha fatto altro che farci arrivare a questa situazione nel nostro territorio, dove nel frattempo le vite umane si spegnavano una dopo l’altra con atroci sofferenze. Anche se oggi chiudessero quel maledetto mostro, noi ancora per anni vivremo con l’incubo di qualsiasi brufolo che ci esce sulla nostra pelle”, dice.
Carla, che insieme al marito Angelo ha fondato l’associazione “Giorgio forever”, racconta di ricevere continuamente messaggi e immagini da genitori preoccupati per il minimo brufolo che spunta sulla pelle dei figli, o sulla propria. “Anche mio figlio di 13 anni quando vede un graffio che non si ricorda di aver fatto mi chiede: ‘Mamma mi è uscito questo, Giorgio si è ammalato alla mia stessa età, succederà anche a me?'”, ricorda.
“O tutte le telefonate che mi arrivano su whatsapp di altre mamme che mi dicono ‘Carla è uscita questa pallina sulla schiena, a chi mi devo rivolgere?’ Ne ricevo tantissime, e sono tutte spaventate. Ecco cosa si vive a Taranto. Ecco perché questi pochi anni di condanna sono nulla. Anche per i Riva ci vorrebbe un ergastolo reale e un’uscita ogni tanto per andare a raccogliere il vomito degli ammalati di cancro dentro gli ospedali, quello farei fare”, conclude amareggiata.
Acciaio sporco di sangue
La sensazione tra le famiglie e gli attivisti dopo la sentenza arrivata al culmine di oltre 13 anni di lotte, e da quando quell’aria a caldo è stata sequestrata per la prima volta nel 2012 su provvedimento del gip Patrizia Todisco ma senza che gli alti forni e le acciaierie si spegnessero, è che se un Tribunale certifica l’esistenza di un disastro ambientale e ne condanna i mandanti, è impensabile che lo Stato continui a sostenere le attività della fabbrica.
“Questa è una restituzione, almeno parziale, per la città e per le tante battaglie di denuncia e mobilitazione, di condanna e accusa nei confronti della gestione Ilva. Allo stesso tempo però ci teniamo a sottolineare che è una follia che quegli impianti sequestrati nel 2012 e oggi ritenuti produttori non solo di acciaio ma anche di disastro ambientale, continuino ad essere operativi e produrre. Gli impianti producono acciaio sporco di sangue. Un reato che continua ad essere commesso”, dice a TPI Luca Contrario, portavoce del movimento “Giustizia per Taranto”.
Per l’attivista nella città c’è una “sospensione del diritto costituzionale”. “È come se vendessi veleno e fossi accusato di omicidio e oggi però questo veleno continuasse ad essere venduto da un altro gestore”. Lo Stato, che non riesce a fermare un reato riconosciuto. “La deve continuare a fare il suo corso condannando coloro che hanno permesso che un simile crimine fosse perpetuato. Dallo Stato ci aspettiamo che almeno oggi, finalmente, quando una sentenza lo certifica, si metta mano alla politica industriale e si parta dal presupposto che gli impianti vanno fermati ora e subito perché è impensabile che possano continuare a restare aperti e produrre”.
I sindacati intanto esprimono preoccupazione per i lavoratori del settore metallurgico. “Sarebbe una beffa insopportabile se, dopo il danno, non diventasse possibile l’approdo ad una produzione ambientalmente sostenibile dell’acciaio nell’impianto di Taranto: condizione indispensabile per la sopravvivenza degli altri siti del gruppo e per le prospettive dell’intera industria manifatturiera italiana”, dichiarano in una nota congiunta Francesca Re David, segretaria generale Fiom-Cgil e Gianni Venturi, segretario nazionale Fiom-Cgil e responsabile siderurgia. “La sentenza condanna un modo sbagliato di fare impresa, ma siamo allarmati per la confisca degli impianti”, afferma il Segretario generale Fim Cisl Roberto Benaglia.
Gli attivisti del territorio chiedono una riconversione ecologica. “Il nostro movimento ha elaborato un piano che dimostra che anche dal punto di vista economico oggi per il Paese sarebbe più conveniente investire in una riconversione”, spiega Contrario. “Lo abbiamo dimostrato con i numeri. Non siamo dell’idea che l’acciaio non debba essere prodotto, ma con sistemi compatibili con l’ambiente. Oggi che tutto il mondo va verso la direzione della transizione energetica, a Taranto si continuano a buttare milioni di soldi pubblici per un’industria obsoleta e superata dalla storia, vecchia, a fonte fossile. Vuol dire che l’Italia è un Paese che non vuole andare incontro al futuro per interessi che evidentemente sono più importanti della salute dei tarantini”.