«Studente prodigio ottiene 4 lauree in 3 mesi». «Tre lauree a 22 anni, la più giovane plurilaureata del Sud». «Si laurea in tempi record a soli 21 anni». Sono alcuni dei titoli che negli ultimi mesi abbiamo letto sui giornali: storie di studenti che – proprio perché fuori dal comune – fanno notizia, ma che rimangono un’eccezione. Raccontate così, tuttavia, alimentano le pressioni su chi, per raggiungere la laurea – per le ragioni più svariate – impiega più tempo. Uno spunto di riflessione su questo tema negli scorsi mesi è arrivato dalla realtà editoriale digitale Æstetica Sovietica, nata durante il primo lockdown. Lo sguardo è rivolto anche a chi arriva a mentire sugli esami e, purtroppo, a togliersi la vita a causa delle pressioni sociali. Tra le testimonianze arrivate a Æstetica Sovietica TPI ha selezionato cinque storie di studenti o ex studenti che hanno affrontato (e superato) momenti di crisi durante gli anni di studio, e ha raccolto le loro voci.
Toccare il fondo e resettare tutto, scoprendo che c’è vita oltre lo studio
Sono una studentessa di 24 anni, e fin dagli anni delle superiori ho accostato allo studio delle attività di volontariato, che spesso mi hanno portato a dedicare allo studio meno tempo di quello che mi sarebbe servito per ottenere sempre ottimi voti o per terminare gli esami alla prima sessione disponibile. Per tutti gli anni dell’università ho fatto la volontaria in un’associazione sportiva per persone con disabilità, un impegno spesso importante e impegnativo in termini di tempo ed energie, ma ricco di soddisfazione. Ho riscontrato, in molti colleghi dell’università, una scarsissima comprensione di quello che facevo e delle scelte che prendevo. Tutto il tempo che si sceglie di non dedicare all’università viene spesso considerato tempo perso, viene paragonato a scarsa voglia di studiare, delle scuse per rimandare il proprio dovere e dedicarsi a qualcosa di meno serio e importante. Come se tutto ciò che non ci rende produttivi e appetibili per il mondo del lavoro sia un freno da eliminare, a qualunque costo. (…)
S. B.
Il percorso di transizione prima di tornare sui libri
Mi sono iscritto all’università quando avevo 19 anni, molto prima di intraprendere il mio percorso di transizione. Prima Scienze politiche, poi Lettere, dove ho fatto qualche esame, ma continuavo a sentire una strana pressione addosso e vivevo ansia nell’affrontare i primi esami. Ho cominciato a soffrire di attacchi di panico, così ho lasciato perdere l’università per un po’ di tempo. Tra i 20 e i 25 anni ho toccato il fondo, non esistevo più. Non avevo ancora preso consapevolezza dell’uomo che fossi. Sopravvivevo, ma non ero pronto per affrontare i vari contesti di vita. A 26 anni mi sono affidato al Policlinico di Bari, dove ho avviato e completato il percorso di transizione. Ora che ho 31 anni sono finalmente me stesso davanti allo specchio e alla società. Ho ripreso gli studi iscrivendomi a Scienze dell’educazione. Mi sento un alieno per non essere appena uscito dal liceo, sembra inconcepibile che uno si iscriva all’università in un momento della propria vita che non sia quello subito successivo alla maturità. (…)
Dilan
Grandi aspettative cancellate dalla realtà
Dopo il diploma mi sono iscritto a Ingegneria. L’ho fatto per assecondare il volere di mio padre, perché sapevo che era un suo desiderio. Lui è morto quando mi mancavano 5-6 esami per finire la magistrale, e tutta la mia carriera in quel momento non ha avuto più senso. Mi sono reso conto che non volevo essere un ingegnere, lo stavo facendo per sentirmi dire “bravo” da lui. Ma quel “bravo” non l’avrei più sentito. Questo mi ha buttato in uno stato depressivo. Sono andato in terapia e lì ho deciso che volevo continuare, per non sprecare il tempo impiegato. E perché in realtà non avevo mai ragionato veramente su cosa io desiderassi. Dopo la laurea, le aspettative della società (trovare il lavoro, essere efficienti, sempre il top) si sono scontrate con la realtà di sfruttamento dei neolaureati. (…)
Luciano (nome di fantasia)
Io studentessa e lavoratrice, discriminata pure dai prof
Ho 27 anni e lavoro da quando ne avevo 19 anni. Devo ancora prendere la magistrale, e in questi anni ho vissuto la totale incomprensione sulla mia situazione di studentessa-lavoratrice, sia da parte dei professori sia da parte dei miei datori di lavoro. Per i professori lo studente modello è quello che frequenta ogni giorno. Non considerano che c’è gente che ha lavoro o magari ha famiglia. Spesso ti dicono: «Se lavori è perché non prendi seriamente lo studio», oppure «Se lavori non puoi seguire questo corso». Una volta feci un esame particolarmente buono, e la professoressa mi disse: Lavorare ti fa perdere del tempo che potresti dedicare allo studio, potenzialmente potresti fare un dottorato». Un commento fuori dal mondo, visto che così mi pago l’università e l’affitto. (…)
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