Per cogliere a pieno e sentire il dramma di ciò che sta rappresentando l’alluvione in Emilia-Romagna, bisogna spingersi a est verso il mare e raggiungere Ravenna dai comuni che lambiscono la zona del Reno, in quello strano luogo avvolto tra la metafisica e la realtà che è la Fornace Zarattini.Chissà come avrebbe raccontato questa Ravenna Michelangelo Antonioni nel suo Deserto Rosso, come avrebbe descritto oggi il tema dell’incomunicabilità tra natura e uomo? Spingendosi per pochi chilometri sulla Via Faentina, dall’uscita dell’autostrada e superando le barriere della polizia che lasciano il passaggio solo ai residenti e alle autorità, si avverte inquietudine e un senso di costante precarietà: la via è lambita dall’acqua, mentre scorrono le immagini di un’intera area industriale sommersa. Sullo skyline, da entrambi i lati della strada, si stagliano cavalcavia occupati dalle auto tratte in salvo e parcheggiate dai residenti e dalle concessionarie alluvionate. Queste zone rialzate sembrano le uniche al sicuro e offrono una visuale privilegiata. Decido di salire sul cavalcavia che va verso il mare e dopo aver affrontato un guado di una trentina di centimetri in auto, dall’alto del dorso capisco che il viadotto va verso il nulla, la via si esaurisce nell’acqua; nelle auto non c’è nessuno mentre continua il senso di pericolo e di precarietà.
Arrampicato sulla paratia, lo sguardo si perde in decine di chilometri d’acqua, sembra il mare. Nulla all’orizzonte lascia intuire ancora terra al di là dell’acqua, solo alcuni elementi ci ricordano che quelli sono campi. Le opere dell’uomo qui si notano solo a un secondo colpo d’occhio, e sono le decine degli alti piloni della corrente elettrica che si stagliano sul mare d’acqua sotto i piedi, poi abbassando lo sguardo, si notano i lunghissimi binari che si perdono all’orizzonte: è la linea ferroviaria anch’essa interamente sommersa.
Ma ancora di più restituisce il senso del dramma di questa terra il fatto che affiorano a pelo d’acqua come alghe, le fronde più alte degli alberi da frutta, sommersi. Sono interi filari di coltivazione sott’acqua per decine di chilometri: è questo il colpo d’occhio che restituisce l’entità di quest’alluvione.
Nella periferia a nord est di Ravenna approda una sterminata mole d’acqua che, con oltre 2 metri di altezza, occupa centinaia di ettari di terreno coltivabile. È la domenica mattina del 21 maggio, c’è il sole e il tutto è cominciato qualche giorno prima sull’Appennino.
È molto complesso dare un quadro di ciò che è accaduto in Romagna negli ultimi 10 giorni: una quantità d’acqua mai vista in un periodo così breve di tempo ha messo in ginocchio questa terra, nonostante qui si possa contare sul lavoro incessante di una delle ingegnerie idrauliche del territorio più competenti d’Europa, devastando prima le città e poi i paesi della pianura.
Per provare ad averne contezza e accorgersi di cosa sia realmente accaduto bisogna scendere in strada tra la gente, gli sfollati, i volontari, la protezione civile, i residenti, l’esercito, e percorrere le vie dell’acqua di una terra che convive da sempre con questo prezioso elemento della natura. Bisogna apprezzare e avere rispetto della continua osmosi tra uomo e natura di questa terra: un dialogo secolare tra le arterie di comunicazione dell’uomo e le vie dell’acqua. Bisogna cogliere e osservare gli incroci che intersecano la Via Emilia, la Via San Vitale (Bologna-Ravenna), le grandi opere dell’ingegno umano, come il Canale emiliano-romagnolo, con l’articolata rete dei torrenti/fiumi che scendono dall’appenino tosco-emiliano, intersecano e attraversano la pianura dalle città fino alla bassa della valle del Reno. È un’arte sapiente e secolare, un intreccio di percorsi naturali che taglia perpendicolarmente le vie dell’uomo.
«Tieniti dalla parte della montagna quando sali», mi dice Monia Rontini, proprietaria della tenuta “Il regno del marrone” a Castel del Rio. Siamo nell’imolese, in quella parte della Romagna che volge lo sguardo verso la Toscana. Sono terre di castagne e turismo “slow”. Qui i bolognesi e non solo vengono a rinfrescarsi nelle acque del torrente a Moraduccio, in un paesaggio mozzafiato, fatto di castagni secolari e boschi. È qui che prende corpo il torrente Santerno, un piccolo fiume che come l’Idice, il Senio, il Sillaro, il Lamone, il Savio e tutti quei corsi d’acqua che hanno inondato Imola, Forlì, Faenza, Cesena e la pianura a seguire, da anni vengono definiti torrenti. Da queste parti mi fanno notare, però, che è un errore definirli tali: «Per tanti anni sono stati piccoli e mansueti, ma in poche ore diventano fiumi e sono pericolosi, specie quando arrivano a valle», mi dice un signore nel bar della piazzetta centrale del paese.
Mi inerpico in auto sulla strada che dal fondovalle porta verso la tenuta di Monia. Sotto il ponticello subito dopo il tornante, un piccolo ma impetuoso torrente ha scavato una voragine e sgorga possente tra un intreccio di tronchi e pietre venute a valle. Salendo incontro tre piccole frane: un misto di fango e detriti da una parte e il baratro verso il bosco dall’altro. Al di là mi attende Franca, la madre di Monia, con i suoi scarponi e il suo bastone. Le due donne producono da generazioni le tipiche castagne DOP di Castel del Rio e proprio in questi giorni avrebbero dovuto inaugurare la loro “fattoria didattica” nel castagneto, un percorso sensoriale nella natura, pensato con estrema cura e con quell’affetto che solo chi vive la montagna da sempre riesce a trasmettere. Insieme ci avviamo su una secolare mulattiera. A terra le impronte fresche di un lupo. Il racconto va subito ai momenti dell’emergenza: martedì 16 maggio la pioggia ha iniziato a cadere in maniera massiccia su un terreno già saturo dalle precedenti precipitazioni della settimana prima. In breve tempo le forti precipitazioni hanno trasformato tutte le vie e i percorsi del castagneto in torrenti impraticabili.
«Noi eravamo in paese perché qui è pericoloso», mi dice Monia mentre mi mostra la grande frana nel suo castagneto che ha diviso la sua proprietà in due, una totalmente inaccessibile. In poco tempo decine, se non centinaia, di piccoli torrenti in tutto il Comune, contemporaneamente, si sono riversati nel Santerno che ingrossava la sua portata in maniera preoccupante. Mi spiegano che il problema non è stato solo quello dell’acqua in superficie: per la prima volta infatti hanno visto attivarsi veri e propri torrenti sotterranei.
«Da dentro la terra sui fianchi della montagna uscivano getti potenti d’acqua», racconta Franca con sguardo incredulo. Dopo due anni di siccità, infatti, la terra spaccata ha offerto passaggi privilegiati all’acqua che, invece che filtrare attraverso il terreno prima di raggiungere lo strato roccioso, si è insinuata direttamente fino ad attraversarne le spaccature. L’acqua che già defluiva potente in superficie, ha creato così altri torrenti sotterranei, vanificando la storica resistenza alle frane prodotta dalle radici dei castagni secolari. Il terreno è di fatto scivolato sulla roccia, come un tappeto su un pavimento: interi lotti di castagneti sono venuti giù, andando a ostruire o distruggere le uniche strade di comunicazione che si arrampicano verso le vette della montagna.
A Castel del Rio – così come in buona parte dell’appenino bolognese e tosco-emiliano – si contano centinaia di frane e moltissime strade impraticabili. Intere zone isolate e un sostanziale default del tessuto economico produttivo delle tipicità del territorio. Monia e Franca mi accompagnano in tutta la loro tenuta, un luogo da cui trapela cultura del territorio e amore per la montagna. Mi raccontano della vespa cinese “cinipite” che aveva già decimato i raccolti dell’ultimo decennio, della siccità, dell’aumento incontrollato delle temperature. Le lascio con l’auspicio comune che le istituzioni facciano il necessario per curare e mettere in sicurezza il territorio e mi avvio verso la pianura, costeggiando il Santerno.
Giù nella bassa pianura
Molti chilometri più a valle, sulla San Vitale della bassa ravennate, nelle terre che da secoli dialogano con l’acqua, tra chiuse, canali e pompe idrovore, ritrovo il fiume Santerno tra Conselice, Massa Lombarda e Lugo, cittadina del ravennate di circa 30 mila abitanti. Qui giovedì notte, dopo circa 48 ore dagli eventi descritti a Castel del Rio, il Santerno rompe gli argini inondando i Comuni circostanti. Nelle ore precedenti sia il Santerno che gli altri 22 fiumi esondati in Romagna avevano messo in ginocchio le città più importanti della via Emilia: Cesena prima, poi Forlì, Faenza, una parte dell’imolese; circa 40 Comuni interessati e decine di migliaia gli sfollati.
È ancora fermo alle 3:45 il grande orologio della torre del Municipio di Sant’Agata sul Santerno, quando la furia delle acque invade in piena notte il paese. Un vero e proprio torrente impetuoso travolge la comunità di circa tremila anime, seppellendo auto, piazze, cortili, la Chiesa, lo stesso Municipio e la quasi totalità delle abitazioni. Una piena impetuosa d’acqua e fango che ha sommerso il paese raggiungendo in alcuni punti i 2 metri di altezza. Mi racconta Michela Gianstefani, catechista della Chiesa madre del paese: «Nella notte dal piano superiore abbiamo sentito un boato, l’acqua ha sfondato la porta d’entrata al piano terra, inondato il corridoio in pochi secondi per poi sfondare anche la porta del giardino e buttare giù il muretto all’esterno. Non pensavo che un allagamento potesse raggiungere una potenza del genere».
A Sant’Agata molti sono stati recuperati con il verricello dagli elicotteri; ora il paese è interamente sfollato e ospitato nei centri d’emergenza dei comuni vicini. Il bilancio della cittadina è pesantissimo: 4 morti. Arrivarci non è facile. Intorno al paese la colonna lombarda della Protezione Civile – sono venuti giù in 50 – ha preso padronanza del territorio. Mezzi dell’Esercito, Carabinieri, Vigili del fuoco hanno chiuso quasi tutti gli accessi, perché alcuni punti sono molto pericolosi e il terreno in molti tratti è ceduto, come quello sotto la ferrovia che ha lasciato decine di metri di binari sospesi nel vuoto. Rimane aperta un’unica via, quella da Massa Lombarda, ed è quella dei volontari.
Sono le 7 di mattina di domenica 21 maggio quando arrivo nel paese e l’acqua non c’è più, ma la situazione è comunque critica: quello che rimane il giorno dopo è uno sterminato strato di fango alto in alcuni punti anche 40 centimetri che invade le strade, i cortili e l’interno delle case ai piani terra. Tutt’intorno è un’infinita serie di cumuli di arredi ed effetti personali accatastati in lunghe colonne sui cigli delle strade. Camminare non è facile, si scivola facilmente o si rimane impantanati, mentre intorno un costante lavorio di macchinari e persone scorrono incessantemente.
Fa impressione il fatto che nonostante il paese sia distrutto non si percepisca la rassegnazione: la popolazione è attiva per rimettere a posto e recuperare quanto possibile e anche se in tanti hanno perso tutto – le auto, gli elettrodomestici, i tavoli, le sedie, finanche i materassi – non ci si ferma un istante, come a non voler pensare, tenendo attivi il corpo e la mente per non cadere di nuovo nella paura vissuta poche ore prima.
Mi fermo a parlare con alcune ragazze. Sono Beatrice e Martina, hanno 18 e 20 anni, studiano all’università e sono venute ad aiutare l’amica Maria Giulia che ha la casa lì di fronte. Lei mi racconta della sua casa interamente sott’acqua, del nonno soccorso con l’elicottero perché l’acqua raggiungeva i 2 metri mentre lui non poteva staccarsi dalla sua bombola d’ossigeno. Nonostante gli occhi spaventati, sorridono grazie all’iniezione di speranza arrivata con le centinaia di volontari accorsi nel paese il giorno prima.
E basta volgere lo sguardo per apprezzare la generosità della gente emiliano-romagnola, dei tanti studenti arrivati da tutta la regione a gruppi di 7/8 persone, armati di badili, scope, stracci e gambali: vengono da Bologna, Ravenna, molti sono emiliani, altri marchigiani o delle regioni vicine. Determinati, tolgono il fango dalle case e dai cortili, altri caricano su camion i mucchi di scarti ingombranti liberando le strade. Già alle 9:00 di domenica mattina le strade fangose brulicano di volontari, e qualche ora dopo altri si accodano pazientemente per arrivare nel paese dall’unica via accessibile e contribuire a spalare. Sono loro la principale risorsa di questa emergenza.
Alcuni residenti mi spiegano che, per quanto preziosa, la Protezione Civile e l’Esercito arrivano con il compito di ripristinare le strade, le comunicazioni, la rete idrica, le principali arterie, le infrastrutture e gli impianti, ma sono i volontari ad alleviare le paure delle persone che hanno perso tutto, aiutandole a ritrovare la forza di sperare nel futuro.
Colonne di alimenti e beni di prima necessità, stand che cucinano per migliaia di persone. «Sono romagnoli, abituati alle Feste dell’Unità, alle sagre di paese e alle cucine popolari; sanno guardare in faccia la vita e affrontarla», mi dice Lorenzo che dà una mano a distribuire i pasti. Il frenetico lavoro della comunità stride però con lo sfondo desolante del paese. Nel piazzale infangato di un centro commerciale l’immagine pietrificante di un’enorme cumulo di beni distrutti e ormai trasformati in spazzatura: è il centro di raccolta degli ingombranti e ad arrivare a sera riempirà quasi tutto il piazzale del grande parcheggio.
Sant’Agata è uno dei paesi più colpiti ma è solo una piccola parte delle terre che l’alluvione ha messo in ginocchio, vittime di uno stato di calamità che trova paragoni solo nel terremoto in Emilia del 2012.
A Lugo incontro il giovane sindaco, Davide Ranalli. Ha 33 anni e guida l’amministrazione già da 9; è costantemente in contatto con i Comuni vicini, perché i canali sono pieni d’acqua e l’emergenza è sempre dietro l’angolo. Qui le acque sono debordate dal Canale, diversamente da altri Comuni che invece sono stati seppelliti dall’acqua dei fiumi. È una differenza sostanziale perché al ritiro delle acque, l’inondazione dal canale non lascia fango. La città infatti è abbastanza pulita, nonostante poche ore prima fosse stata sommersa per tutta la sua estensione, centro storico compreso. Il Teatro Rossini, fiore all’occhiello della cultura del territorio, non è stato risparmiato. Il direttore, Giovanni Barberini, mi racconta tutta la sua preoccupazione per la platea ristrutturata da poco, per le poltrone, gli impianti, il sottopalco: tutto da rifare.
Qui si svolge il festival Rossini Open, una importante Stagione di Prosa e altre attività di forte richiamo. Giovanni spera di riuscire a recuperare completamente il teatro per riaprire con la prossima stagione.
Stessa sorte è toccata alla biblioteca di Lugo. Anche qui la direttrice, Maria Chiara Sbiroli, mi racconta come già alle prime ore dell’alba nel bel mezzo dell’inondazione sia corsa in biblioteca in compagnia di alcuni dipendenti per salvare i manuali storici e portarli al piano superiore: una corsa contro il tempo mentre l’acqua si insinuava da sotto gli stipiti delle porte e saliva di minuto in minuto. Mi racconta dell’importanza sociale della biblioteca, del suo ruolo di aggregazione e di riferimento per la comunità. Lugo è pronta a tornare alla normalità. Ma non è ancora così per molti Comuni della zona, soprattutto per le sterminate miglia di campi invasi dall’acqua.
In queste ore si lotta per invertire il verso de Canale Emiliano Romagnolo, un’importante opera idrica che partendo dal Po garantisce vie per l’irrigazione su tutta la dorsale della via Emilia. Invertire il corso delle acque significherebbe liberare le campagne sommerse, portando l’acqua dolce dalle zone colpite della Riviera verso il Po. Un’operazione che è di vitale importanza per ridare ossigeno alle campagne e alle zone industriali attualmente sommerse dall’acqua. Sembra che questa soluzione stia avendo risultati. D’altronde queste sono sempre state terre d’acqua: dal Delta del Po alle bonifiche del Reno, qui si è sempre lottato per sottrarre la terra all’acqua. Un complesso sistema di canali e pompe idrovore hanno garantito negli anni prosperità a un terreno un tempo paludoso, grazie anche all’ingegno degli emiliano-romagnoli. Una volta qui c’erano gli scariolanti e gli sbadilatori che giorno per giorno in decenni hanno movimentato tonnellate di fango e terra. Così hanno costruito i chilometri di canali, argini, golene e casse di espansione.
Proprio Ravenna diede i natali a Nullo Baldini, che nel 1883 costituì l’Associazione generale degli operai braccianti del Comune. Fu il primo atto di cooperativismo in Italia e in Europa. I primi soci a iscriversi furono 300 tra sbadilatori e scariolanti; poco dopo gran parte della bonifica nell’Agro Pontino fu affidato al sistema cooperativo ravennate.
È con questo spirito di condivisione e iniziativa che oggi i romagnoli stanno salvando ancora una volta la loro terra dall’acqua.