Roma, il gestore di un bar: “Facile chiudere tutto con stipendio pubblico garantito”
“Non sono deluso solo dall’ultimo Dpcm, ma da tutta la gestione del Coronavirus in Italia. Sono un imprenditore che, da marzo a oggi e chissà per quanto tempo ancora, vive una situazione di estrema difficoltà. E in cambio cosa ricevo? Dei provvedimenti che lasciano indietro solo alcuni lavoratori, come noi gestori di bar e ristoranti, mentre c’è chi come i dipendenti pubblici continua a percepire il suo stipendio al 100 per cento, lavorando in smart working. È profondamente ingiusto”. Fabrizio Astrologo ha 53 anni, gestisce un noto bar in zona Circo Massimo, a Roma, ma è anche consigliere della Fiepet-Confesercenti della Capitale. Lui, come molti altri, è stato fortemente colpito dall’ultimo Dpcm emanato domenica scorsa, che tra gli altri provvedimenti prevede la chiusura anticipata di bar e ristoranti alle 18. A TPI, ha raccontato che durante il lockdown il suo giro d’affari è calato del 60 per cento, mentre nell’ultima settimana – con le nuove restrizioni – quella percentuale è salita all’80. “Non porto più un euro a casa – racconta – e non so più cosa dire alle mie figlie”.
Iniziamo da domenica sera. Cosa ha provato quando ha capito che sarebbe stata l’ultima serata in cui poteva accogliere i clienti a cena?
Sono ormai così assuefatto da questi Dpcm, che non ho provato nulla. L’unica cosa che mi fa paura è la telefonata della polizia in piena notte per chiudere il locale. Non mi meraviglio e non provo più dolore: ormai la misura è colma già da tempo.
Cosa significa per la sua attività interrompere la vendita alle 18? Si aspettava questa nuova chiusura?
Qualche parallelismo con marzo si iniziava a vedere, immaginavo che sarebbe arrivata la chiusura e temo che arriverà anche un lockdown. Magari la chiusura fosse davvero alle 18… Già da qualche ora prima dobbiamo abbassare la pressione all’interno del locale, perché questo sia vuoto all’orario del blocco. Il mio bar è al centro storico, in zona Circo Massimo, ed è a forte caratterizzazione turistica. Già dopo il lockdown, a maggio, il lavoro si era assestato a circa il 60 per cento in meno rispetto a prima del Covid. Adesso siamo in una situazione ancora peggiore.
Anche lei, come tanti altri colleghi, aveva adeguato il suo locale a tutte le norme anti-Covid.
Certamente, per mesi abbiamo lavorato e investito per rendere il contatto con il pubblico il più sicuro possibile. Se guardo indietro, oggi, vedo solo altri soldi sprecati. Soprattutto perché a noi gestori dei locali non è stato riconosciuto lo status di persone in prima linea contro il Covid. Certo, non sono un infermiere e non voglio paragonarmi alla loro importanza, però anche io tutti i giorni incontro le persone, tocco i soldi, tengo la mascherina addosso per ore, corro dei rischi e cerco di portare avanti la mia attività. Non sono in prima linea?
Come si vede il 24 novembre, data in cui dovrebbe scadere il Dpcm?
Non voglio nemmeno immaginarlo, cerco di vivere giorno per giorno. Penso a me, alla mia famiglia, ma anche ai miei quattro dipendenti che al momento sono tutti in cassa integrazione (e alcuni ancora aspettano di riceverla). In queste settimane sono andato avanti da solo, con i miei soci.
Ieri il presidente di Fiepet-Confesercenti Roma, Claudio Pica, ci ha detto che il nuovo Dpcm crea cittadini di serie A, ovvero i dipendenti pubblici che continuano a percepire il loro stipendio in smart working, e cittadini di Serie B, voi. Che ne pensa?
È un dato di fatto, credo che nessuno possa negare che al momento in Italia ci siano cittadini nettamente più privilegiati e altri che invece non vengono nemmeno tutelati. Chi sta a casa in smart working, tranquillo con il suo stipendio pubblico garantito, critica il lavoratore che invece è costretto a muoversi per la città rischiando di contagiarsi per mantenere la sua famiglia. Però poi in queste settimane, prima dell’ultimo Dpcm, è andato tranquillamente ad allenarsi in palestra. C’è un profondo egoismo: il commerciante ha la nomina di essere attaccato al denaro, ma c’è chi fa peggio in silenzio. Nel pubblico, ho visto gente scendere in piazza per un buono pasto cancellato o per dieci euro decurtati da una busta paga.
Quindi ci sono lavoratori garantiti e lavoratori sacrificati.
È innegabile. Immagini se a suo padre togliessero l’80 per cento dello stipendio per 6-7 mesi. Poi se lo immagini seduto a tavola, mentre guarda i suoi figli, e pensi al volto che potrebbe avere. Ecco, io sono quel papà che torna a casa. E mi reputo anche fortunato, perché mia moglie fa l’insegnante e quindi percepisce uno stipendio che ci permette di vivere. Io non riesco a portare soldi a casa: mantengo solo la baracca aperta.
In questi giorni, diversi intellettuali stanno facendo degli appelli ai dipendenti pubblici affinché versino parte dei loro soldi in un fondo per autonomi e precari. Che ne pensa?
Vengo da una formazione familiare imprenditoriale e pluralista, eppure oggi troverei socialmente adeguata una redistribuzione del reddito per far fronte alla crisi. Bisognerebbe creare dei fondi di solidarietà affinché nessuno rimanga indietro. Poi, finita l’emergenza, si torna a un sistema basato sui meriti.
Si aspetta che il Governo dia a voi esercenti un ristoro sufficiente a mantenere in vita la vostra attività? Nel corso della prima ondata cosa ha ricevuto?
Ho ricevuto poco meno di 8mila euro a fronte però di qualche centinaio di migliaia di euro di mancato incasso. La sproporzione è gigantesca. Quei fondi sono durati un giorno, il tempo di fare dei bonifici urgentissimi ai miei lavoratori: è stato come aver bevuto un sorso d’acqua nel deserto. Vediamo cosa succederà adesso con questo nuovo ristoro.
Ha avuto contatti con altri ristoratori che vogliono scendere in piazza a protestare? Lei sarebbe disposto a farlo? E in che modo?
Non ho ancora avuto modo di parlare con altri ristoratori, ma lo farò nei prossimi giorni. Su questo tema, il ragionamento è delicato: quanto è efficace una protesta civile con cartelloni e fischietti? Se ne parla un giorno, poi tutti hanno dimenticato. E noi non possiamo permetterci che accada questo. Però è anche vero che se il corteo diventa violento, con tanto di scontri tra manifestanti e polizia come avvenuto nei giorni scorsi, il messaggio non passa più. Che fare quindi? Serve protestare con la giusta motivazione, come la storia ci insegna. Senza scegliere la violenza per partito preso. C’è anche il rischio di passare per negazionisti. Ma io non ci sto: il Coronavirus esiste e lo so bene, capisco che servano misure per contenere i contagi. Quello che non capisco è perché si scelga di lasciare indietro solo alcune categorie di lavoratori. Uno vale uno, sempre.
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