La chiamano semplicemente “Mob”. Oppure in sigla “Lcn”, ovvero “La Cosa Nostra”. Cinque famiglie – i Bonanno, i Columbo, i Gambino, i Genovese e i Luchese – che per decenni hanno dominato la New York del crimine. Hanno una organizzazione che rispecchia in tutto e per tutto la casa madre siciliana, con a capo il “boss”, affiancato da un consigliere e un vice, “underboss”, un vertice che regge e gestisce i diversi gruppi criminali.
Per ogni team c’è un capo e un ristretto manipolo di soldati. Sono tutti “punciuti”, affiliati con il rito antico nato in Sicilia due secoli fa; sono discendenti italiani al 100% e sono tutti uomini. Le donne, nella Cosa Nostra statunitense, sono escluse, nel nome dell’antico patriarcato. Sotto di loro ci sono gli “associati”, fiancheggiatori non iniziati con il rito tradizionale, esecutori di ordini oppure specialisti da utilizzare quando serve.
La mafia americana, filiazione diretta di Cosa Nostra, non è solo l’immaginario che ha alimentato straordinari film, a partire dal “Fronte del porto” di Elia Kazan, per arrivare a “C’era una volta in America”. È un’organizzazione mai sconfitta definitivamente, che negli ultimi anni sembra riemergere, nonostante centinaia di arresti e le inchieste sotto copertura in stile Donnie Brasco.
Terza generazione
Tanti i segni sul ritorno della mafia più pericolosa oltre oceano. Il 31 maggio del 2017 a New York sedici affiliati vengono arrestati in un’operazione dell’Fbi contro la famiglia Luchese. Scorrendo i nomi riportati nell’atto di accusa si intravedono almeno tre generazioni, con un’età degli imputati compresa tra i trenta e gli ottant’anni.
Il procuratore Joon H. Kim dopo gli arresti racconta alla stampa tutta la sua preoccupazione: «Come dimostrano le accuse di oggi, Cosa Nostra rimane viva e attiva a New York».
Non è folclore da relegare a Hollywood. Tre anni più tardi, nel novembre 2020, nella zona di South Philadelphia e Southern New Jersey, la magistratura ordina l’arresto di altri quindici esponenti dei clan italiani, con l’accusa di racket, gioco d’azzardo, usura, estorsione e traffico di droga: il curriculum criminale più tradizionale per “La Cosa Nostra”.
Al centro dell’indagine c’era la famiglia guidata da Steven Mazzone. Leggendo gli atti del processo si ritrova lo stesso rito di iniziazione di sempre e il dettame d’oro: italiani al 100%, con regole di omertà rigorose. Puntavano al controllo delle scommesse sportive e all’usura ad Atlantic City, la città portuale della costa est: una macchina da soldi in grado di supportare il business del narcotraffico.
Ancora New York, agosto dello scorso anno: un’operazione di polizia colpisce le famiglie Bonanno e Genovese, i nomi di peso più noti in città. Dietro le insegne di punti di ritrovo e negozi di Queens (con nomi italiani, come La Nazionale Soccer Club, il Gran Caffe, il Centro Calcio Italiano Club) si nascondevano sale da gioco clandestine.
Breon S. Peace, il procuratore degli Stati Uniti per il distretto orientale di New York, di nuovo lancia l’allarme: «Questi arresti dimostrano che la mafia continua a inquinare le nostre comunità con gioco d’azzardo illegale, estorsione e violenza mentre utilizza il nostro sistema finanziario al servizio dei loro schemi criminali».
La Cosa Nostra americana non è solo gioco d’azzardo o traffico di droga. È soprattutto un’organizzazione cresciuta grazie all’infiltrazione nel cuore dell’economia statunitense. Conta su un discreto esercito di “punciuti” fedelissimi, che rendono difficilmente penetrabile l’organizzazione.
Nel 2000, secondo uno studio pubblicato dal Dipartimento di Giustizia Usa, i membri erano più di mille, l’80% dei quali a New York e il resto sparso tra Boston, Chicago, Philadelphia, e Miami. Gli associati – ovvero fiancheggiatori o criminali che lavorano per l’organizzazione senza essere affiliati – sono circa 10mila.
Nella Grande Mela
L’allarme forse più serio potrebbe scattare nella Grande Mela, dove le cinque famiglie di Cosa Nostra non hanno mai abbandonato il cuore del loro business: la logistica portuale. Da qui potrebbe ripartire l’ombra della mafia siciliana sulla città.
La specializzazione delle famiglie di New York è stata, fin dall’inizio della loro presenza negli Usa, l’infiltrazione criminale dei sindacati, soprattutto della logistica portuale. Ci guadagnavano tre volte: utilizzavano le “union” per una sorta di estorsione nei confronti delle attività marittime, facendo la leva sul conflitto sindacale sulle banchine. Nello stesso tempo controllavano le assunzioni, ricevendo in cambio una stecca. E, last but not least, si garantivano il controllo della logistica, cuore strategico per ogni tipo di traffico.
Il controllo del porto da parte di Cosa Nostra è iniziato circa un secolo fa, quando non esistevano i container. Le merci arrivavano sfuse: quando una nave si avvicinava alle banchine servivano tanti uomini per poter scaricare velocemente il carico.
Il lavoro era informale e le famiglie mafiose si inserirono velocemente come mediatori della manodopera, intascando poi le mazzette dalle paghe. Si racconta che chi voleva assicurarsi un lavoro da scaricatore doveva mettere uno stuzzicadenti dietro l’orecchio, come segnale in codice di una disponibilità a pagare la tangente sulla paga.
Lo sviluppo del sistema moderno di movimentazione dei container e una serie di inchieste dell’Fbi dei decenni passati hanno ridotto il potere delle famiglie di Cosa Nostra sul porto di New York rispetto al passato. Fin dagli anni Cinquanta gli Stati Uniti cercarono di combattere la presenza mafiosa nella logistica, capendo che quello era il cuore criminale mafioso più pericoloso.
Nel 1953 venne creata la Waterfront Commission of New York Harbor con il compito di bloccare l’infiltrazione della criminalità organizzata, con un potere di controllo anche sui profili di chi viene assunto. Con una parentela sospetta, scatta un alert, in un sistema simile alla nostra certificazione antimafia. Per sradicare la presenza della mafia italiana nel porto di New York la Waterfront Commission ha dovuto sudare le sette camice, affrontando anche tante ombre e accuse di corruzione al suo interno. Ma non è bastato.
I racconti di estorsioni e mazzette tra i portuali della Grande Mela non sono spariti e oggi riaffiorano nelle cronache della città. Il New York Times, in un’inchiesta del 2017, ha raccontato di una presenza ancora attuale, anche se più sfumata rispetto al passato, delle mani della famiglia Genovese nella gestione portuale.
Voci sussurrate, ma anche prove fisiche, come una mazzetta di 51.900 dollari avvolta nel cellophane, scoperta nel 2010 che – secondo le testimonianze raccolte dall’Fbi – era il tributo che un gruppo di lavoratori pagava alla famiglia Genovese ogni Natale. Chi cercava di sottrarsi dal controllo delle famiglie di Cosa Nostra veniva trasferito a lavorare in settori più pesanti e con paghe inferiori.
La presenza dei Genovese, dei Bonanno, dei Gambino la respiri ancora oggi in molti uffici dei potenti sindacati portuali, dove siedono uomini già indagati in passato con l’accusa di aver fatto parte del sistema di racket. La Waterfront Commission, fino ad una quindicina di anni fa, non era nota per una particolare efficienza nel contrastare l’infiltrazione delle famiglie all’interno delle organizzazioni sindacali dei portuali.
Nel 2008, dopo un cambio dei vertici, l’organismo di vigilanza ha però iniziato a svolgere controlli più puntuali, arrivando a uno scontro diretto con i sindacati, cercando di ripulire il sistema della logistica dalle presenze criminali.
Qualcosa oggi potrebbe cambiare, in peggio. Da circa quattro anni lo Stato del New Jersey sta cercando di uscire dal board della Waterfront Commission, ritenendo che non esista più un pericolo di infiltrazione mafiosa nel porto.
Alla richiesta ripresentata lo scorso anno si sono opposti i funzionari della città di New York, che hanno fatto ricorso alla Corte Suprema, ottenendo una prima vittoria bloccando la decisione. L’uscita dello Stato del New Jersey dalla gestione della Commissione porterebbe inevitabilmente alla fine della struttura creata per contrastare l’infiltrazione mafiosa.
Lo scorso gennaio la questione è tornata di attualità: il New Jersey ha chiesto di nuovo di uscire unilateralmente dalla commissione di controllo. Secondo il giornale online Politico, i giudici federali sarebbero orientati, questa volta, a far prevalere la decisione del New Jersey, dopo le pressioni – sempre più forti – arrivate dai sindacati portuali e dall’industria marittima.
Marketing
Mentre uno dei pochi organismi antimafia creati negli Usa rischia di sparire, Cosa Nostra diventa di nuovo pop, un’icona da vendere. Liborio Bellomo, nonostante il cognome, non ha certo il fisique du role di un Marlon Brando ne “Il Fronte del Porto”.
Eppure il suo volto da mesi gira su magliette in vendita ovunque, distribuite anche sulla piattaforma cinese Ali Babà. Nelle t-shirt appare raffigurato nella foto segnaletica che gli scattò l’Fbi anni fa, quando venne arrestato, processato e condannato con l’accusa di essere uno dei vertici della famiglia Genovese, attivo proprio nel grande business del porto di New York.
Bellomo nel 1997 aveva subito una condanna a dieci anni di carcere per aver estorto un sindacato delle costruzioni e una società di trasporto di rifiuti e – secondo quanto riferisce il New York Times – evitò l’accusa di duplice omicidio grazie a un patteggiamento con i giudici. Nel 2008 è tornato libero, dopo aver scontato la pena e oggi vive discretamente in una lussuosa villa della costa est.
Molto pop è diventata anche la figura della famiglia Gotti – strettamente legata ai Gambino – grazie alla figlia di John Gotti, il boss morto nel 2002. Victoria – che il New York Times definiva «una improbabile bionda mediterranea che sembra Donatella Versace e si veste come Jessica Rabbit» – due anni dopo la morte del padre, è diventata protagonista di un reality show tutto incentrato sulla sua famiglia, dal titolo “Growing Up Gotti” (Crescere Gotti), andato in onda per tre stagioni tra il 2004 e il 2005.
La location era la lussuosa residenza ad Old Westbury, nella contea di Nassau, Stato di New York, ritenuta la zona più cara della costa est. Sfarzo sfrontato e nelle scene un continuo soffermarsi sui marmi, sui cuscini leopardati e le foto del Boss John Gotti. Lo show è stato fermato ma la lussuosa villa oggi appare su Youtube abbandonata e meta di videomaker alla caccia di luoghi fantasma. Molto pop.
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