Luglio 2024, centro storico di Cagliari. Decine di nastri bianchi sventolano appesi a un albero di oleandro. Su di essi, sono riportati i nomi delle vittime di femminicidio in Sardegna. Tra loro, c’è anche quello di Manuela Murgia. Accanto, il numero che segna l’età che aveva quando è stata strappata alla vita: 16.
La scomparsa
4 febbraio 1995, Cagliari. In casa Murgia ci si prepara per la giornata. Emanuela (chiamata da tutti Manuela), è una ragazzina di 16 anni. Sta facendo colazione con un caffè latte. Elisabetta, sua sorella minore, la saluta prima di andare a scuola. Il padre della famiglia, il signor Murgia, sta riposando, è da poco rientrato dal lavoro che lo porta per molti giorni lontano da casa. La madre di Manuela esce per andare al lavoro, si porta dietro la nipotina che spesso si ferma in casa con le cuginette.
Dopo poco, la signora Murgia rientra in casa. Sua nipote ha deciso di voler rimanere con Manuela, alla quale è molto affezionata. Entrando però, trova la porta aperta. Manuela era uscita per un breve momento. La signora, subito dopo, nota uno strano movimento nella cameretta della figlia. Si accorge che, con una coperta, Manuela all’improvviso nasconde qualcosa: un cambio di vestiti.
Perché li stava nascondendo? Dov’era uscita precedentemente? La figlia non risponde, la discussione viene rimandata al pomeriggio, quando la signora Murgia rientrerà a casa. La famiglia è molto unita, si è sempre parlato di tutto e a cuore aperto. Manuela rimane a casa a badare alla cuginetta, suo padre continua a riposare.
Sono circa le 12 quando il signor Murgia, uscito dalla doccia, nota la nipotina da sola e che alcuni oggetti di Manuela erano sul tavolo insieme al telefono cordless, che di solito si trovava in camera da letto, lasciati come se qualcuno fosse uscito di fretta, all’improvviso.
Manuela non è in casa, il padre si affaccia dalle finestre, la cerca, la chiama. Manuela non c’è. Al rientro della madre, alle 13:30, cominciano le telefonate ad amici e parenti e le ricerche di casa in casa. Nel pomeriggio la denuncia presso la Polizia e la conseguente notte insonne. Manuela non si sarebbe mai allontanata così, senza dire niente a nessuno. Non aveva mai fatto nulla per far preoccupare i genitori.
L’ultima persona ad averla vista è una vicina di casa che, attorno alle 12:00, la nota allontanarsi su di un’auto di colore celestino-blu. La donna afferma che Manuela era seduta sul lato passeggero e che, per non essere vista, si sia coperta il volto con i capelli. Purtroppo, non riesce a distinguere chi stesse guidando quell’auto.
Il ritrovamento
5 febbraio 1995, ore 12:00. Una telefonata anonima, al comando di Polizia di Cagliari, denuncia la presenza di un corpo senza vita all’interno del canyon di Tuvixeddu. Il canyon è una cava in disuso da 30 anni. Sulla parte più alta, vi si trova un’enorme necropoli di età punica. Il canyon è diviso da una strada di circa un chilometro, chiusa da un cancello. Sul margine di questa strada avviene il ritrovamento. Il cadavere è prono, con il capo coperto dal cappuccio della giacca. Il corpo è quello di Manuela Murgia. La famiglia è devastata dal dolore. Il caso è affidato a un giovane magistrato trentacinquenne: il pm Guido Pani. Gli inquirenti, almeno inizialmente, valutano l’ipotesi del delitto: come può essere arrivata in quel punto una ragazzina sola, in pieno inverno? La morte di Manuela diventa subito un caso nazionale. Le forze dell‘ordine decidono, per poter proseguire le indagini senza clamori, di dichiarare che quello di Manuela è stato un suicidio, pur continuando a valutare l’ipotesi del delitto. Questa indagine però, dura appena sei giorni e, alla fine, il caso viene davvero archiviato come suicidio: Emanuela Murgia si sarebbe lanciata nel vuoto dal dirupo che circonda la necropoli. Un volo di 20 metri (ma come vedremo tra poco, anche questo dato si rivelerà errato). Nessuno della famiglia crede che Manuela si possa essere tolta la vita. Nessuno dei suoi comportamenti, né il suo carattere portano minimamente all’ipotesi di un suicidio. Inoltre, sono troppe le incongruenze e gli elementi non tenuti in considerazione durante le indagini. La stampa non si comporta meglio, arrivando ad accusare l’ambiente familiare di Manuela come ragione del suo suicidio. Manuela lascia due genitori, un fratello, e due sorelle, una di 14 e l’altra di 10 anni. La famiglia si chiude nel dolore, anche per proteggersi dall’accanimento dei media che, senza alcun rispetto per il lutto, sono a caccia di immagini. Le indagini sulla morte di Manuela vengono chiuse. Nessuna spiegazione, nessun approfondimento. In gergo tecnico: caso chiuso con riserbo.
Trent’anni di silenzi
7 luglio 2024. Cagliari, 29 anni dalla scomparsa di Manuela. È una giornata caldissima quando arriviamo alla necropoli di Tuvixeddu, il luogo dove fu trovato il corpo di Manuela Murgia. Qui incontriamo parte della sua famiglia: il fratello Gioele, le sue sorelle, oggi adulte, Anna ed Elisabetta, e Alessio, marito di Elisabetta.
Il 30 giugno 2024, dopo 29 anni di silenzi e grazie a nuovi elementi, la famiglia Murgia ha presentato istanza per far riaprire il caso: Manuela è stata uccisa. È questo che la sua famiglia afferma da quasi tre decenni. Elisabetta era la sorella più vicina a Manuela e, per questioni di età, anche la sua confidente. È proprio da Elisabetta che parte questa lotta per cercare la verità.
«Ero una ragazzina quando Manu è morta. Tutte le indagini furono per lo più concentrate sulla nostra famiglia, ma il colpevole è fuori: Manuela non si è buttata, Manuela è stata uccisa», ci dice. «Nel 2012 avevamo fatto un altro tentativo per riaprire le indagini, il pm era lo stesso del 1995, quindi conosceva bene il caso. Queste indagini furono ancora più superficiali di quelle del ’95. Il caso venne archiviato, nuovamente, come suicidio. In quell’anno gli inquirenti ci chiesero di stare in silenzio, di non fare chiasso mediatico perché avremmo potuto interferire con le indagini. Ma noi non vogliamo più stare zitti, per Manuela e per darle giustizia», ricorda. «La nostra famiglia ha vissuto due vite: una è quella prima di Manuela, e poi c’è il dopo. Ho smesso di frequentare quasi tutte le persone che conoscevo negli anni in cui mia sorella era viva. Un giorno però, nel settembre 2023, ho incontrato un amico di quegli anni che mi ha detto: “Le amicizie, è lì che devi cercare per scoprire la verità su Manuela”. Dopo quest’episodio mi sono recata dal mio avvocato: Giulia Lai. Non le avevo mai raccontato nulla di quella storia. Da lì è cominciata la nostra battaglia».
L’avvocato si mette subito in moto. Trova assurdo che, dopo 29 anni, la famiglia non abbia potuto leggere nemmeno un referto. L’avvocato si reca direttamente dal pm e, grazie alla sua determinazione, riesce ad ottenere il fascicolo su Manuela.
Qualcosa non torna
«Quando ho preso in mano gli atti, mi sono subito resa conto che qualcosa non andava. Pur, in quel momento, conoscendo ancora poco della storia, vi ho trovato molte lacune. Le intercettazioni telefoniche erano inesistenti. C’erano degli indagati, ma nelle loro case nessuno aveva mai effettuato delle perquisizioni. Certo, avevamo le nostre intuizioni e sospetti, però, avevamo bisogno di prove concrete per poter riaprire il caso e dare un’ipotesi investigativa diversa», ci racconta l’avvocato Lai.
Elisabetta allora riunisce i suoi cari. Oggi fratelli e sorelle sono cinque. La famiglia è cresciuta con altri due figli, nati dopo la morte di Manuela. Pur non volendosi tutti esporre a livello mediatico, sono d’accordo sul lottare per far riaprire il caso. La famiglia Murgia mette insieme una squadra: avvocati, criminologi, medici, ingegneri. Gli esperti analizzano tutti i dati a disposizione e così, cominciano ad apparire le tante incongruenze. Leggendo il referto medico, Manuela sarebbe morta per asfissia: le costole avrebbero bucato il polmone. Il volto di Manuela però, non aveva un colore compatibile con un decesso per mancanza d’aria.
La misurazione della parete del canyon poi, quello da cui Manuela si sarebbe lanciata, è sbagliata: i metri non sono 20 ma 35. Una caduta da quell’altezza avrebbe danneggiato seriamente le ossa e il cranio, invece, il corpo è integro. Il volto di Manuela: perfetto.
Ci sono altri particolari non tenuti in considerazione durante le indagini: i vestiti. Manuela aveva tracce di trascinamento sulla punta delle scarpe. La sua cintura era regolarmente nei passanti dei jeans, ma recisa in due punti. Come se qualcuno l’avesse sollevata di peso, avesse rotto la cintura per poi rinfilarla al suo posto. Il suo giaccone, un montgomery, era pulito, ma il maglione al di sotto della giacca era sporco di erba e terriccio. C’è anche qualcosa che manca: la sua maglietta intima. Manuela portava, sotto il maglione, una magliettina dove vi era cucito una sorta di amuleto. Questo amuleto conteneva al suo interno una preghiera, Manuela era molto religiosa (uno dei tanti motivi che scongiura l’ipotesi di suicidio). Questa magliettina non è mai stata ritrovata. L’amuleto, invece, si trovava nella tasca dei suoi jeans.
La dottoressa Maria Marras, avvocato e criminologa, che fa parte del team di esperti messo insieme dalla famiglia Murgia, ci racconta altri particolari: «Le suole degli stivaletti di Manuela erano pulite, non presentavano tracce di terriccio compatibili con quel luogo e con la giornata piovosa. Se si fosse lanciata dal punto indicato dagli inquirenti, avrebbe avuto resti di fanghiglia, anche sugli abiti. Non c’è nulla di tutto questo. Inoltre, sono stati trovati sugli indumenti delle gocce di un materiale nero bluastro e nero fumo, materiale non presente sul luogo del ritrovamento. Questi ultimi elementi non sono stati analizzati, molto probabilmente perché, all’epoca, non c’erano i mezzi per poterlo fare».
Le stesse macchie nere, menzionate dalla dottoressa Marras, erano anche presenti su mani e fronte di Manuela. Un altro dato scioccante è che i vestiti di Manuela sono spariti. Nessuno li trova più dal ’95, sarebbero stati fondamentali per un’analisi del DNA. Inoltre, Manuela, nello stomaco, aveva tracce di semolino. Un piatto che viene preparato e si mangia normalmente in casa. Dove ha consumato questo pasto? Una delle (tante) domande ancora senza risposta.
Chi era Manuela Murgia?
Quando i suoi familiari la descrivono, lo fanno sempre con estrema gioia. Manuela era una ragazza sorridente, allegra, dolce e testarda. Un’amica e confidente per la sorella Elisabetta, una seconda mamma per la sorellina Anna. Era una persona molto religiosa e sognava una famiglia e dei figli. Le sue conoscenze erano limitate a quelle di un ex ragazzo, con cui aveva terminato una storia qualche settimana prima della sua morte, e pochissime amicizie.
Elisabetta ci dice qualcosa in più sui giorni prima della scomparsa della sorella: «Manuela, da circa quindici giorni prima della sua morte, non era più la stessa. Era spesso triste e cupa. Quando i nostri genitori non c’erano, ricevevamo delle telefonate anonime. A queste rispondeva Manu, senza dir nulla. Annuiva e poi piangeva. Manuela non mi ha mai voluto raccontare cosa le dicessero al telefono. Durante le indagini, nessuno ha mai cercato i tabulati di quelle chiamate».
«Nella valutazione criminologica e criminalistica di un evento delittuoso, oltre l’analisi del fascicolo di indagine e delle consulenze medico-legali e biomeccaniche (in questo caso per valutare la compatibilità o meno della morte da precipitazione da grande altezza con le lesioni riscontrate sul cadavere), si ricorre anche a quella psicologica-retrospettiva», aggiunge la criminologa Maria Marras. «Da quello che ho riscontrato, Manuela non era un soggetto predisposto al suicidio (autopsia psicologica) ed era, inoltre, una vittima a basso rischio (esame vittimologico)».
Grazie al lavoro di Gioele, Elisabetta e Anna, la storia di Manuela, partendo dai social con la pagina curata dalla famiglia: “Giustizia per Manuela Murgia”, è arrivata a trasmissioni televisive come “Chi l’ha visto” e in svariati podcast, radio e video su YouTube.
Siamo alla metà di luglio quando lasciamo la famiglia di Manuela. C’è molta speranza per la riapertura del caso, soprattutto sulla possibilità di riesumare il cadavere, cosa che, con i mezzi di oggi, potrebbe portare a nuove rivelazioni. Ma non sarà così.
Un muro di gomma
Martedì 30 luglio 2024, Cagliari. Un’ulteriore tegola si abbatte sulla famiglia Murgia. La Procura ha deciso di rigettare la richiesta di riapertura del caso. A rifiutare l’istanza è ancora il pm Guido Pani, lo stesso del 1995, lo stesso del 2012. «Siamo molto delusi e arrabbiati. Eravamo molto positivi sulla riapertura del caso. Evidentemente non ritengono che ci siano delle prove consistenti per poterlo fare. Quello che possiamo dire è che, di certo: nostra sorella da lì non è caduta e troveremo un modo per dimostrarlo. Non ci arrenderemo», commentano Anna, Elisabetta e Gioele.
Molte sono le domande ancora senza risposta su questo caso: chi l’ha portata via in auto? Chi minacciava Manuela per telefono? Perché non si è indagato più a fondo sulle persone che la frequentavano? Dove sono i suoi vestiti? Qual è stato il movente? Manuela aveva sicuramente consumato un pasto da qualcuno, prima di essere uccisa, in quale casa? È possibile che non ci siano testimoni che l’abbiano vista quel 4 febbraio 1995? Perché tanta omertà?
Sono tanti i casi irrisolti, o archiviati con troppa facilità, dalla giustizia italiana. Negli ultimi anni, podcast e serie tv ne stanno portando alla luce i particolari, come ad esempio nel caso di Elisa Claps o in quello di Stefano Cucchi.
Quello che molto spesso si evince è che, senza la lotta da parte delle famiglie delle vittime, sia davvero difficile ottenere delle risposte. Questo è anche il caso della famiglia di Manuela Murgia che, da 29 anni, combatte contro un muro di gomma.
Quando domandiamo alle sue sorelle e fratelli che cosa faranno il giorno in cui verrà alla luce la verità, Anna risponde: «Il giorno che avremo giustizia potremo finalmente piangere. Quel giorno potremo finalmente lasciare andare Manuela».