Da tre anni, il 14 agosto rappresenta per la famiglia Regeni, e per tutti coloro ancora chiedono verità e giustizia per Giulio, una ferita difficile da rimarginare.
“Tra le telefonate più dolorose ricordiamo nitidamente quella del 14 agosto 2017, quando l’allora presidente Gentiloni ci annunciava il rinvio dell’ambasciatore al Cairo”. Come scrivono Paola Deffendi e Claudio Regeni nel libro “Giulio fa cose”, con una telefonata nel pomeriggio della vigilia di Ferragosto, il presidente del consiglio Paolo Gentiloni annunciava alla famiglia Regeni, e immediatamente dopo all’Italia, il ritorno al Cairo dell’ambasciatore italiano Giampaolo Cantini, nominato nei mesi precedenti al posto di Maurizio Massari. È la ripresa dei rapporti istituzionali tra i due paesi a distanza di un anno e mezzo dalla morte di Giulio Regeni.
Una scelta, quella del rientro dell’ambasciatore in Egitto, che negli anni ha dimostrato tutti i suoi limiti, specie considerando i pochissimi passi in avanti fatti nelle indagini sulla morte di Giulio e la scarsa – per non dire nulla – collaborazione dell’Egitto. La procura di Roma ha dimostrato di sapersi districare anche nel groviglio di intrighi e bugie ordini per depistare gli inquirenti nella ricerca della verità, ma da sola non può farcela, specie dovendo affrontare delle indagini che si svolgono in un altro Paese.
Da quel 14 agosto 2017 si sono susseguiti diversi ministri e anche diversi incontri tra le parti interessate. Conte ha incontrato Al Sisi, Alfano ha incontrato Al Sisi, Moavero ha incontrato Al Sisi, Di Maio ha incontrato Al Sisi. Incontri pieni di promesse ma, ad oggi, la famiglia di Giulio non ha ancora ricevuto nemmeno i vestiti che il giovane ricercatore indossava quando è morto.
“Nonostante le continue promesse non c’è stata da parte egiziana nessuna reale collaborazione. Solo depistaggi, silenzi, bugie ed estenuanti rinvii. Il tempo della pazienza e della fiducia è ormai scaduto. Chi sosteneva che la migliore strategia nei confronti degli egiziani per ottenere verità fosse quella della condiscendenza, chi pensava che fare affari, vendere armi e navi di guerra, stringere mani e guardare negli occhi gli interlocutori egiziani fosse funzionale ad ottenere collaborazione giudiziaria, oggi sa di aver fallito. Richiamare l’ambasciatore oggi è l’unica strada percorribile. Non solo per ottenere giustizia per Giulio e tutti gli altri Giuli, ma per salvare la dignità del nostro paese e di chi lo governa”.
Lo affermavano in una nota Paola e Claudio Regeni in riferimento all’ultimo vertice di luglio, tenutosi in videoconferenza, tra i magistrati italiani e quelli egiziani sull’inchiesta per l’omicidio di Giulio. La petizione lanciata per richiamare l’ambasciatore dal Cairo ha raggiunto oltre 77mila firme. Ma l’appello dei Regeni non è bastato a smuovere il ministro degli Esteri Luigi Di Maio.
“Ribadisco con determinazione che autorità politiche e diplomazia continueranno ad impegnarsi, con il chiaro obiettivo di pervenire alla verità. […] Secondo me è fuorviante credere che avere un nostro ambasciatore al Cairo significhi non perseguire la verità sul caso di Giulio Regeni. Viceversa penso sia altrettanto fuorviante pensare che il ritorno del nostro ambasciatore sia necessario per raggiungere la verità”, diceva il ministro Di Maio, in audizione alla Camera presso la Commissione parlamentare di inchiesta sulla morte di Giulio Regeni.
L’Egitto ha dimostrato fin da subito di fare ostruzionismo, nonostante gli ottimi rapporti, anche l’allora ambasciatore Massari ha dovuto ammettere che al momento del ritrovamento del corpo di Giulio, l’atteggiamento delle autorità egiziane è sempre stato elusivo, fumoso e poco collaborativo. Atteggiamento che non è certo cambiato con il ritorno del nostro ambasciatore al Cairo.
Che la permanenza al Cairo dell’ambasciatore Giampaolo Cantini abbia ragioni ben più profonde di quelle illustrate dal ministro Di Maio è ormai semplice intuirlo. Negli anni i governi che si sono succeduti hanno dimostrato di non voler in alcun modo compromettere le relazioni economiche tra i due paesi. Interessi che riguardano settori con appalti miliardari: dall’energia alle armi, le aziende italiane coinvolte hanno un ascendente importante sulle decisioni politiche.
L’esempio più calzante è quello che riguarda la “commessa del secolo”, ossia la vendita di 2 navi militari e, nel prossimo futuro, di 6 fregate, di una ventina di pattugliatori navali, di 24 cacciabombardieri Eurofighter e 24 aerei addestratori M346 all’Egitto del presidente Al-Sisi. L’accordo è ormai cosa fatta, a parte un ultimo passaggio formale.
La commessa contiene l’arsenale bellico del declamato made in Italy: due fregate multiruolo Fremm, originariamente destinate alla Marina miliare italiana (la Spartaco Schergat e la Emilio Bianchi), ma anche altre quattro navi e 20 pattugliatori (che potrebbero essere costruiti nei cantieri egiziani), 24 caccia multiruolo Eurofighter e altrettanti aerei addestratori M346. Un contratto, il maggiore mai rilasciato dall’Italia dal secondo dopoguerra, che farà dell’Egitto il principale acquirente di sistemi militari italiani. Un affare da 9 miliardi di euro.
In virtù di accordi così significativi, le “questioni morali” come può essere quella di Giulio, o anche la permanenza in carcere di Patrick Zaky, sembrano passare in secondo piano. Ma se non vogliamo credere a questa narrazione, se vogliamo fidarci delle parole del ministro Di Maio, ci dica allora, fino a oggi, a cosa è servita la presenza dell’ambasciatore italiano in Egitto. Quali sono i risultati raggiunti grazie alla sua azione e come si è riuscito a fare pressione sulle autorità egiziane.
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