“Generalmente non mi espongo su questi fatti, perché non sono informata a modo, ma questa cosa ve la devo troppo raccontare”. Comincia così il lunghissimo post su Facebook di una studentessa di medicina dell’Università di Modena e Reggio Emilia, Virginia Di Vivo.
“Mi reco molto assonnata al congresso più inflazionato della mia carriera universitaria, conscia che probabilmente mi addormenterò nelle file alte dell’aula magna. Mi siedo, leggo la scaletta, la seconda voce è ‘sanità pubblica e immigrazione: il diritto fondamentale alla tutela della salute’. Inevitabilmente penso ‘e che do bali’. Accendo Pokémon Go, che sono sopra una palestra della squadra blu. Mi accingo a conquistarla per i rossi. Comincia a parlare il tale Dottor Pietro Bartolo, che io non so chi sia”.
Virginia non sa chi sia Bartolo. Non sa ancora che quell’incontro con il medico di Lampedusa le cambierà la vita. “Sento la sua voce in sottofondo: non parla di epidemiologia, di eziologia, non si concentra sui dati statistici di chissà quale sindrome di *lallallà*. Parla di persone. Continua a dire ‘persone come noi'”.
“Bartolo racconta che sta lì, a Lampedusa, ha curato 350mila persone, che c’è una cosa che odia, cioè fare il riconoscimento cadaverico. Che molti non hanno più le impronte digitali. E lui deve prelevare dita, coste, orecchie. Lo racconta: ‘Le donne? Sono tutte state violentate. TUTTE. Arrivano spesso incinte. Quelle che non sono incinte non lo sono non perché non sono state violentate, non lo sono perché i trafficanti hanno somministrato loro in dosi discutibili un cocktail antiprogestinico, così da essere violentate davanti a tutti, per umiliarle. Senza rischi, che le donne incinte sul mercato della prostituzione non fruttano’. Mi perplimo”, scrive ancora Virginia.
“Ma non era un congresso ad argomento clinico? Dove sono le terapie? Perché la voce di un internista non mi sta annoiando con la metanalisi sull’utilizzo della sticazzitina tetrasolfata? Decido di mollare bulbasaur, un secondino, poi torno Bulba, devo capire cosa sta dicendo questo qua. ‘Su questi barconi gli uomini si mettono tutti sul bordo, come una catena umana, per proteggere le donne, i bambini e gli anziani all’interno, dal freddo e dall’acqua. Sono famiglie. Famiglie come le nostre'”, scrive ancora la studentessa.
“Mostra una foto, vista e rivista, ma lui non è retorico, non è formale. È fuori da ogni schema politically correct, fuori da ogni comfort zone. ‘Una notte mi hanno chiamato: erano sbarcati due gommoni, dovevo andare a prestare soccorso. Ho visitato tutti, non avevano le malattie che qualcuno dice essere portate qui da loro. Avevano le malattie che potrebbe avere chiunque. Che si curano con terapie banali. Innocue. Alcuni. Altri sono stati scuoiati vivi, per farli diventare bianchi. Questo ragazzo ad esempio’, mostra un’altra foto, tutt’altro che vista e rivista. Un giovane, che avrà avuto 15/16 anni, affettato dal ginocchio alla caviglia”, si legge ancora nel post di Virginia.
“Mi dimentico dei Pokémon. ‘Lui è sopravvissuto agli esperimenti immondi che gli hanno fatto. Suo fratello, invece, non ce l’ha fatta. Lui è morto per essere stato scuoiato vivo’. Metto il cellulare in tasca. ‘Qualcuno mi dice di andare a guardare nella stiva, che non sarà un bello spettacolo. Così scendo, mi sembrava di camminare su dei cuscini. Accendo la torcia del mio telefono e mi trovo questo..’ Mostra un’altra foto. Sembrava una fossa comune. Corpi ammassati come barattoli di uomini senza vita”, scrive Virginia.
“‘Questa foto non è finta. L’ho fatta io. Ma non ve la mostrano nei telegiornali. Sono morti lì, di asfissia. Quando li abbiamo puliti ho trovato alcuni di loro con pezzi di legno conficcati nelle mani, con le dita rotte. Cercavano di uscire. Avevano detto loro che siccome erano giovani, forti e agili rispetto agli altri, avrebbero fatto il viaggio nella stiva e poi, con facilità, sarebbero usciti a prendere aria presto. E invece no. Quando l’aria ha cominciato a mancare, hanno provato ad uscire dalla botola sul ponte, ma sono stati spinti giù a calci, a colpi in testa. Sapeste quanti ne ho trovati con fratture del cranio, dei denti'”, ha raccontato ancora Bartolo agli studenti.
“‘Sono uscito a vomitare e a piangere. Sapeste quanto ho pianto in 28 anni di servizio, voi non potete immaginare’. Ora non c’è nessuno in aula magna che non trattenga il fiato, in silenzio.
‘Ma ci sono anche cose belle, cose che ti fanno andare avanti. Una ragazza. Era in ipotermia profonda, in arresto cardiocircolatorio. Era morta. Non avevamo niente. Ho cominciato a massaggiarla. Per molto tempo. E all’improvviso l’ho ripresa. Aveva edema, di tutto. È stata ricoverata 40 giorni. Kebrat era il suo nome. È il suo nome. Vive in Svezia. È venuta a trovarmi dopo anni. Era incinta’, ci mostra la foto del loro abbraccio”, scrive ancora Virginia.
“‘Si perché la gente non capisce. C’è qualcuno che ha parlato di razza pura. Ma la razza pura è soggetta a più malattie. Noi contaminandoci diventiamo più forti, più resistenti. E l’economia? Queste persone, lavorando, hanno portato miliardi nelle casse dell’Europa. E io aggiungo che ci hanno arricchito con tante culture. A Lampedusa abbiamo tutti i cognomi del mondo e viviamo benissimo. Ci sono razze migliori di altre, dicono. Sì, rispondo io. Loro sono migliori. Migliori di voi che asserite questo’. Fa partire un video e descrive: ‘Questo è un parto su una barca. La donna era in condizioni pietose, sdraiata per terra. Ho chiesto ai ragazzi un filo da pesca, per tagliare il cordone. Ma loro giustamente mi hanno risposto ‘non siamo pescatori’. Mi hanno dato un coltello da cucina. Quella donna non ha detto bau. Mi sono tolto il laccio delle scarpe per chiudere il cordone ombelicale, vedete? Lei mi ringraziava, era nera, nera come il carbone. Suo figlio invece era bianchissimo. Si perché loro sono bianchi quando nascono, poi si inscuriscono dopo una decina di giorni. E che problema c’è, dico io, se nascono bianchi e poi diventano neri? Ha chiamato suo figlio Pietro. Quanti Pietri ci sono in giro!'”, ha detto ancora Bartolo.
“Sorridiamo tutti. ‘Quest’altra donna, invece, è arrivata in condizioni vergognose, era stata violentata, paralizzata dalla vita in giù… Era incinta. Le si erano rotte le acque 48 ore prima. Ma sulla barca non aveva avuto lo spazio per aprire le gambe. Usciva liquido amniotico, verde, grande sofferenza fetale. Con lei una bambina, anche lei violentata, aveva 4 anni. Aveva un rotolo di soldi nascosto nella vagina. E si prendeva cura della sua mamma. Tanto che quando cercavo di mettere le flebo alla mamma lei mi aggrediva. Chissà cosa aveva visto. Le ho dato dei biscotti. Lei non li ha mangiati. Li ha sbriciolati e ci imboccava la mamma. Alla fine le ho dato un giocattolo. Perché ci arrivano una montagna di giocattoli, perché la gente buona c’è. Ma quella bimba non l’ha voluto. Non era più una bambina ormai”‘.
“Foto successiva – scrive Virginia – ‘Questa foto invece ha fatto il giro del mondo. Lei è Favour. Hanno chiamato da tutto il mondo per adottarla. Lei è arrivata sola. Ha perso tutti: il suo fratellino, il suo papà. La sua mamma prima di morire per quella che io chiamo la malattia dei gommoni, che ti uccide per le ustioni della benzina e degli agenti tossici, l’ha lasciata ad un’altra donna, che nemmeno conosceva, chiedendole di portarla in salvo. E questa donna, prima di morire della stessa sorte, me l’ha portata. Ma non immaginate quanti bambini, invece, non ce l’hanno fatta. Una volta mi sono trovato davanti a centinaia di sacchi di colori diversi, alcuni della Finanza, alcuni della polizia. Dovevo riconoscerli tutti. Speravo che nel primo non ci fosse un bambino. E invece c’era proprio un bambino. Era vestito a festa. Con un pantaloncino rosso, le scarpette. Perché le loro mamme fanno così. Vogliono farci vedere che i loro bambini sono come i nostri, uguali’. Ci mostra un altro video. Dei sommozzatori estraggono da una barca in fondo al mare dei corpi esanimi. ‘Non sono manichini’, ci dice”, si legge ancora nel post di Virginia.
“Il video prosegue. Un uomo tira fuori dall’acqua un corpicino. Piccolo. Senza vita. Indossava un pantaloncino rosso. ‘Quel bambino è il mio incubo. Io non lo scorderò mai’. Non riesco più a trattenere le lacrime. E il rumore di tutti coloro che, alternadosi in aula, come me, hanno dovuto soffiarsi il naso. ‘E questo è il risultato’ ci mostra l’ennesima foto. ‘368 morti. Ma 367 bare. Si. Perché in una c’è una mamma, arrivata morta, col suo bambino ancora attaccato al cordone ombelicale. Sono arrivati insieme. Non abbiamo voluto separarli, volevamo che rimanessero insieme, per l’eternità'”.
“Penso che possa bastare così. E questo è un estratto. Sì, perché il Dottor Bartolo ha parlato per un’ora. Gli altri relatori hanno lasciato a lui il loro tempo. Nessuno ha osato interromperlo. E quando ha finito, tutti noi, studenti, medici e professori, ci siamo alzati in piedi e abbiamo applaudito, per lunghi minuti. E basta. Lui non ha bisogno di aiuto, ‘non venite a Lampedusa ad aiutarci, ce l’abbiamo sempre fatta da soli noi lampedusani. Se non siete medici, se non sapete fare nulla e volete aiutare, andate a raccontare quello che avete sentito qui, fate sapere cosa succede a coloro che dicono che c’è l’invasione. Ma che invasione!'”.
“E io non mi espongo, perché non so le cose a modo. Ma una cosa la so. E cioè che questo è vergognoso, inumano, vomitevole. E non mi importa assolutamente nulla del perché sei venuto qui, se sei o no regolare, se scappi dalla guerra o se vieni a cercare fortuna: arrivare così non è umano. E meriti le nostre cure. Meriti un abbraccio. Meriti rispetto. Come, e forse più, di ogni altro uomo”, ha scritto in conclusione Virginia, la studentessa che ha voluto seguire il consiglio di Bartolo. Raccontare, aprire le menti, far arrivare un messaggio solo: restare umani, sempre e sempre di più di fronte alla disumanità.
La lezione di Pietro Bartolo all’Università degli studi di Modena e Reggio Emilia