“Tu sei di Palermo, quindi avrai amici mafiosi, mi ha detto una volta un mio amico a Milano. Io un po’ imbarazzato ho risposto di no. Poi mi sono chiesto come è stato possibile che io abbia avuto un’adolescenza tranquilla crescendo in piena guerra di mafia. Da questa sorta di esame di coscienza è venuto fuori La mafia uccide solo d’estate”.
Una sorta di Forrest Gump siciliano. Così Pif definisce il suo primo film da regista, uscito nove anni fa, presentandolo sul Lungotevere in uno dei molti incontri fioriti in un’estate romana particolarmente prodiga di eventi cinematografici. Si pensi che il solo rione di Trastevere, nella prima estate post-Covid, ha offerto ben cinque arene tra San Cosimato, Nuovo Sacher, Lungotevere e Isola Tiberina. Ed è proprio qui che Pif vive. “Quando ero un giovane videomaker vivevo al Pigneto – scherza – ora che sono un attore di successo sto a Trastevere. Il prossimo passo sarà una villa all’Olgiata con parcheggio riservato e portiere in livrea!”.
A trent’anni delle stragi di Capaci e via D’Amelio Pif racconta la genesi della sua opera prima, incentrata su un ragazzo che vive da inconsapevole protagonista la storia della Sicilia degli ultimi cinquant’anni, incrociando le vite – tra gli altri – di Boris Giuliano, Rocco Chinnici e Carlo Alberto Dalla Chiesa. “L’estate del 1992 per me era quella della maturità. Ero ripetente, perché il terzo anno lo avevo voluto – diciamo così – approfondire. Ma la maturità, poi, è diventata una cosa secondaria: la strage di via D’Amelio è stato un trauma ancora più forte di quella di Capaci. Sia perché non avremmo mai immaginato che lo Stato potesse permettere alla mafia di uccidere anche Borsellino, sia perché avvenne in pieno centro”.
Pif svela anche un particolare che non molti conoscono: “Falcone doveva essere ucciso a Roma, perché sarebbe stato molto più semplice. Lui andava tutti i giorni a pranzo a Campo de’ Fiori, a piedi e da solo, senza scorta. Bastava qualche colpo di pistola, e Matteo Messina Denaro aveva il compito di pedinarlo. A un certo punto – non sapremo mai perché – Totò Riina bloccò tutto e disse che lo avrebbero ucciso a Palermo, in maniera eclatante. Io credo però che proprio il modo plateale in cui è stato assassinato Falcone ha cambiato la storia. Fino agli anni ‘60 la parola mafia non veniva mai pronunciata, ma il 23 maggio 1992 nemmeno il siciliano con il prosciutto sugli occhi poteva sostenere che Cosa Nostra non fosse un problema”.
Eppure ancora oggi la mafia continua ad essere negata dalla gran parte dei siciliani, anche e soprattutto nelle zone in cui il fenomeno è più radicato. O ad essere narrata come un’attrazione turistica, con tanto di magliette e souvenir. E la sua stessa narrazione – da Il Padrino a Gomorra – è molto amata dai criminali. “A rendere credibile e affascinante la mafia è il fatto vivere in un mondo parallelo, dove i valori sono rovesciati. Per sconfiggerla bisognerebbe investire un sacco di soldi sullo Zen e sui quartieri popolari, dove la Cosa Nostra è per i giovani un mito come per noi è un mito Falcone. La verità è che alle cerimonie antimafia ci va gente già sensibile, ma a Palermo ci sono persone che continuano a brindare alla morte di Falcone. Devo dire che uno degli insegnamenti più grandi me lo ha dato Tina Montinaro, la vedova di uno dei poliziotti della scorta: l’ho conosciuta al carcere Malaspina di Palermo, dove parlava del marito a ragazzi che probabilmente tifavano per i killer che lo hanno ucciso”.
“D’altra parte – prosegue Pif – i mafiosi sono convinti di stare dalla parte del bene. Bernardo Provenzano nei suoi pizzini scrive: ‘Dobbiamo fare al meglio il nostro lavoro nel nome di Dio’”. Per capire quanto Cosa Nostra sia contingua alla vita quotidiana dei siciliani, l’ex Iena racconta un aneddoto: “Con i miei amici stavamo in piazza fino alle tre di notte, poi andavamo a cornetti e c’era Giulio che con la sua Y-10 per partire faceva un’inversione totalmente insensata, sfiorando sempre un cancello. E noi gli dicevamo: ‘Stai attento che prendi il muro della casa di Totò Riina’. Era diventata una barzelletta ed è andata avanti per almeno due estati. Nel gennaio 1993 arrestano Totò Riina e dove abitava? Dietro quel cancello. Questa era Palermo. Mia sorella andava alla scuola delle suore e aveva tra le compagne la figlia di un magistrato e la figlia di un mafioso”.
È proprio questa vicinanza culturale, d’altronde, che ha fatto guadagnare a Giovanni Falcone la fiducia di Tommaso Buscetta: “Parlavano lo stesso linguaggio. Falcone cresce in un quartiere popolare dove c’era anche Borsellino e ricorda che mentre interrogava un mafioso quello gli disse: “Signor giudice si ricorda? Noi giocavamo insieme a ping pong!”. Oggi poi, spiega Pif, la mafia è ancora più vicina: “Perché il mafioso che si nasconde a mangiare pane e cicoria come Provenzano non c’è più. Lo stesso Matteo Messina Denaro girava in Ferrari. Questo fa un po’ paura. Nel film c’è una scena accaduta realmente: un mafioso si innamora di una ragazza che ha i genitori divorziati. E questa è una cosa inaccettabile per la morale mafiosa. Così Riina suggerisce: “Perché non ammazziamo il padre? Così non è più figlia di divorziati ma di madre vedova”. “Si tratta – aggiunge il regista – di racconti che spesso i pentiti facevano ai poliziotti che li scortavano e con cui avevano fatto amicizia. Aneddoti che in un’aula di tribunale non avevano valore ma che ci aiutano a capire quel mondo”.
Se c’è poi una cosa di cui Pierfrancesco Diliberto va particolarmente orgoglioso è di aver raccontato gli eroi antimafia nella loro quotidianità: “Rocco Chinnici e Boris Giuliano li mostro al bar che mangiano il cornetto. Perché ricordare solo la morte non rende loro giustizia. La nostra vita è cambiata per quello che hanno fatto da vivi e non per come sono morti. Erano persone normali, che facevano cose normali come tutti noi. Giuliano viene ucciso mentre paga il caffè, Borsellino era andato a prendere la madre per accompagnarla dal medico. Parliamo di persone incredibili nella loro normalità, per questo racconto le loro vite con gioia. La gioia dell’antimafia”.
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