Pietro Grasso e la foto dell’americano bendato in caserma
“Che vergogna. Non ho parole: ha notato che la prima versione della foto era tagliata in modo che sulle pareti del comando non si vedessero le foto di Carlo Alberto Dalla Chiesa, di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino? Chi l’ha diffusa sapeva che questo prigioniero bendato e ammanettato era, è, una bestemmia contro il diritto, contro lo Stato, contro la legalità e la Costituzione”. Pietro Grasso, ex capo della procura Antimafia (oggi senatore di Liberi e Uguali), è rimasto letteralmente sconvolto per la foto del giovane americano sospettato di omicidio nel comando dei carabinieri.
E a TPI spiega: “Quello che più mi stupisce non è solo ciò che è accaduto, ma anche la perdita di qualsiasi coscienza, della memoria di come lo Stato ha combattuto contro la criminalità in questi anni. E poi sono interdetto per il dibattito incredibile che si è svolto, come se un reato grave giustificasse un comportamento barbaro. Per noi che abbiamo imparato a combattere la mafia nel maxi-processo, e che abbiamo proseguito con l’esempio di Falcone e Borsellino, è esattamente il contrario”, aggiunge Grasso.
“Ed è una falsità facilmente dimostrabile: Falcone si conquistò il rispetto di Buscetta, che lo vedeva come un nemico, proprio per un rispetto sacrale della persona. Noi – prosegue l’ex procuratore – siamo la prima generazione di magistrati che ha avuto a che fare con i pentiti. Noi interrogavano persone che si erano macchiate di reati turpi, raccapriccianti: delitti, minacce, bambini squagliati nell’acido. Se ci fossimo abbassati al livello dei criminali saremmo impazziti. A Provenzano chiesi: ‘Ha bisogno di qualcosa?’. Mi disse che voleva delle medicine e gliele trovammo immediatamente”.
“Uno, davvero incredibile, riguarda proprio l’interrogatorio di uno dei pentiti, Gioacchino La Barbera, da cui appresi in maniera del tutto casuale una notizia per me, e non solo per me, sconvolgente. Quello che accadde dopo fu surreale”.
“Certo. Mi chiamano i carabinieri per dirmi: ‘C’è questo pentito che ha fatto una rivelazione importante. Doveva far parte di un comando per uccidere uno dei magistrati di Palermo, che abita in zona Monreale”.
“Esatto. Avessimo dovuto seguire la barbara legge del taglione, o la nostra rabbia di allora, avremmo dovuto appendere tutti loro ai ceppi. Tuttavia non abbiamo mai torto un capello a nessuno, mai derogato ai principi del diritto…”.
“Mentre vado ad incontrare il pentito mi dicono: se l’attentato non è stato eseguito da quel commando, altri potrebbero attuarlo. È necessario interrogare e capire chi era l’obiettivo’. La Barbera aveva raccontato negli interrogatori che aveva ritirato dei telecomandi a Catania, da alcuni referenti dei Santapaola, e li aveva consegnati a Salvatore Biondino. Ma bisognava scoprire di più“.
“Chiamano me a fare questo interrogatorio perché ero uno di quelli che, ovviamente, conosceva benissimo Palermo. La Barbera aveva aggiunto che era tutto pronto: i telecomandi, l’esplosivo e il furgone modificato per compiere un attentato. Ma che non si ricordava più il nome del magistrato”.
“Sono lì che penso a come cominciare, apro la porta, entro nella stanza, ci sono la Barbera e un appuntato che parlano, ed è a questo punto che succede la cosa più folle della mia vita”.
“Appena mi vede La Barbera diventa pallido come un cencio, sbianca, si alza in piedi e si batte una mano sulla fronte. Poi, senza guardarmi dice all’appuntato: ‘Iddu!!!! Iddu è!! Iddu!’”.
“Esatto, proprio io. Zona Monreale perché lì abitavano i miei suoceri e ci andavo spesso perché la madre di mia moglie stava male. Poi purtroppo morì e non ci andai più, ma loro non lo sapevano. Avevano ritenuto che il mio indirizzo di casa non fosse idoneo. A me non era passato per la mente che potessero pensare di ammazzarmi davanti a mio padre e a mia madre”.
“Il bello è che a quel punto La Barbera aggiunge: ‘Io non dico più nulla! Nulla!’”.
“Devo mettermi a rincuorare il mio potenziale assassino. Spiegargli che non ci saranno vendette, ovviamente. Ma anche che sarà protetto. E devo essere molto rassicurante, perché per un uomo cresciuto con il codice della mafia questo metodo era quasi inconcepibile”.
“Che abbiamo letto e sentito parole irresponsabili. Negli anni Novanta ognuno di noi aveva una croce nel cuore, un amico o un fratello caduto. Non abbiamo mai ceduto all’istituto di emergenza. E solo per questo abbiamo potuto vincere senza rinnegare noi stessi e i nostri amici caduti sotto i colpi degli assassini”.