“Adesso non sono con mio marito. Me l’hanno sequestrato, stavolta in senso buono. Mi chiami tra un’ora”. Finalmente ride e scherza al telefono Cristina Amabilino, moglie di uno dei 18 pescatori di Mazara del Vallo tenuti prigionieri per 108 giorni in Libia e rientrati in Italia domenica scorsa. TPI l’aveva incontrata nella cittadina trapanese lo scorso 13 dicembre, durante una protesta in cui, con gli altri familiari dei sequestrati, chiedeva a gran voce la liberazione dei marittimi rapiti dalle forze del generale Haftar lo scorso settembre. Il sequestro è avvenuto mentre i pescherecci si trovavano in acque internazionali, ma in una zona di cui la Libia rivendica unilateralmente da anni lo sfruttamento esclusivo.
Quattro giorni dopo quella protesta, è arrivata la notizia che tutti aspettavano: i pescatori erano finalmente liberi e stavano per rientrare in Italia a bordo dell’Atlantide e del Medinea. Così, pochi giorni dopo il suo ritorno a casa dalla moglie e dai figli, Bernardo Salvo, dell’equipaggio del peschereccio Natalino, può raccontarci i difficili momenti della prigionia a Bengasi: “Sono stati 108 giorni di violenza e umiliazioni”, dice a TPI.
Cominciamo dall’inizio, cosa è successo durante il sequestro?
La guardia costiera libica ci ha fermato, hanno detto che era un normale controllo. Mi hanno fatto scendere dal Natalino e salire su un gommone, che mi ha portato sulla motovedetta libica. Il comandate della motovedetta libica mi faceva segno di chiamare il Natalino e dirgli di fare rotta verso Bengasi. Il comandante del Natalino sul momento mi ha detto “Sì, va bene”. Ma poi ho perso ogni contatto con lui. Quando la motovedetta si diretta verso il peschereccio, lui ha cambiato rotta e se n’è andato.
Aveva intuito quello che stava succedendo?
Secondo me sì, per questo se n’è andato.
Lei aveva capito cosa stesse succedendo?
No, non avevo mai avuto questo tipo di esperienza. Per me era solo un normale controllo.
Si aspettava che la lasciasse lì?
No, non ci credevo. Mi fidavo del comandante, non potevo pensare che mi abbandonasse lì.
Lei era il solo membro dell’equipaggio del Natalino?
Sì, gli altri erano componenti degli altri pescherecci.
Poi cosa è successo?
La mattina del 2 settembre la motovedetta si è fermata davanti al porto di Bengasi. I libici si aspettavano 4 pescherecci, ma ne erano arrivati solo 2. Per questo in banchina se la sono presa con me e con Giacomo Giacalone (dell’equipaggio dell’altro peschereccio fuggito, ndr).
Vi hanno picchiati?
Sì, ci hanno dato ginocchiate sulle gambe, schiaffi sulla schiena e spintoni.
Solo a voi due?
Sì. Ci hanno martoriati tutto il giorno mentre eravamo ancora in banchina. Ci dicevano di chiamare i pescherecci, di dirgli di venire a terra. Altrimenti minacciavano ci ucciderci, di tagliarci le gambe.
Lei in quel momento cosa pensava?
Mi hanno fatto tanta paura che pensavo sarei morto.
Poi dove vi hanno portati?
Hanno preso i comandanti e direttori di macchina dell’Antartide e del Medinea, insieme a me e a Giacomo Giacalone, e ci hanno portati al ministero dell’Interno. Siamo stati lì 4 giorni, abbiamo dormito per terra, con un tappetino e pezzi di vetro spezzettati per terra. Lì è iniziato il nostro incubo.
Dopo cosa è successo?
Hanno portato noi 6 nel primo carcere, poi anche i marinai degli equipaggi. Lì abbiamo vissuto un mese di terrore.
Avete cambiato in tutto 4 carceri.
Sì, uno peggiore dell’altro.
In quali condizioni vi trovavate?
Dormivamo a terra. Per mangiare ci portavano due ciotole di alluminio, le mettevano sul pavimento e dovevamo usarle per mangiare in 18. Senza posate, ci aiutavamo con le mani.
Continuavano a minacciarvi?
Sì, ci spaventavano e ci umiliavano. Lì ragionano così. Poi di prendevano sempre in giro, dicendo che era tutto a posto. Ma niente era a posto. Dicevano sempre “domani, domani”, ma poi passavamo da un carcere all’altro, di notte.
Alcuni di voi hanno raccontato di aver sentito le urla degli altri prigionieri.
Sì, sia nel primo sia nell’ultimo carcere. L’ultimo è stato il peggiore, eravamo come dentro una scatola nera. Ogni sera sentivamo che facevano uscire i detenuti libici. Non so dove li portassero, non vedevamo nulla, ma li sentivamo piangere come bambini. Secondo noi li torturavano.
Questi prigionieri non li avete mai visti?
No, mai. Solo sentiti.
Pensate fossero libici o stranieri?
Non lo so. Ma i tunisini ci dicevano che pensavano fossero libici.
In questi mesi avete avuto solo una telefonata con le vostre famiglie, giusto?
Sì. In quel momento abbiamo avuto un po’ di sollievo, perché pensavamo che qualcosa si stesse muovendo. Fino a quel punto non avevamo nessuna notizia o conforto. Eravamo senza speranze.
Quando avete capito che vi avrebbero liberati?
Proprio perché ci prendevano sempre in giro, all’inizio non ci credevamo. Pensavamo ci stessero portando in un altro carcere. Quando ci hanno fatto salire sul pullman non eravamo ancora sicuri, ma eravamo contenti perché ci avevano riunito finalmente dopo mesi, tunisini e italiani. Poi siamo arrivati davanti al porto e c’era quest’uomo che ci ha sostenuto, un certo Mario. Quando lo abbiamo sentito parlare in italiano, allora abbiamo capito che saremmo stati liberi.
Chi era questo Mario?
Non lo so, so che era la persona che ha gestito la situazione.
Forse qualcuno dei servizi?
Non so cosa dirle su questa persona, perché non so nulla.
Poi siete saliti sulle barche.
Sì, lì ci siamo abbracciati tutti, ci siamo messi a piangere. Ci dicevamo: dai ragazzi, ce l’abbiamo fatta, stiamo tornando a casa.
Vi aspettavate quello che hanno fatto le vostre mogli e le vostre famiglie?
Sapevamo che non ci avrebbero abbandonato, ma tutto questo non me l’aspettavo. Oggi so che grazie a loro noi siamo usciti di là. Hanno messo in ginocchio l’Italia.
Che Natale la aspetta?
Il più bello della mia vita, con mia moglie e con i miei figli.
Tornerà in mare?
Sì, il mio mestiere è questo. Tornerò, ma non adesso. Non è ancora il momento.
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