Sta succedendo. Sotto i nostri occhi stanno aumentano sia le bollette della luce, che quelle del gas. I dati rilasciati da Arera (L’Autorità di Regolazione per Energia Reti e Ambiente) fanno impressione: pur con gli interventi straordinari da parte del Governo, nel primo trimestre 2022 rispetto al primo trimestre del 2021 si registrerà una crescita del +131 per cento per l’energia elettrica (da 20,06 a 46,03 centesimi di euro/kWh, tasse incluse) e del 94 per cento per quello del gas naturale (da 70,66 a 137,32 centesimi di euro per metro cubo, tasse incluse). Con l’attuale mix di generazione la bolletta elettrica in Italia si stima sarà di circa 95 miliardi di euro nel 2022, oltre il doppio rispetto al 2019 in cui è stata pari a 44 miliardi di euro. Ma senza incappare in discorsi da bar, pieni di rabbia per i soldi in più da far uscire dal portafoglio, occorre riavvolgere il nastro e capire che cosa sta succedendo. Il primo punto da chiarire è che gas e luce sono due risorse indissolubilmente legate perché il primo contribuisce per circa il 40 per cento all’elettricità italiana ed è una quota praticamente identica alle rinnovabili. Le rinnovabili hanno un costo di produzione pari a zero, perché il vento e il sole non li paghiamo. Il gas, invece, serve per tenere il sistema in equilibrio. Il suo prezzo definisce il costo di tutta la produzione elettrica, che per legge deve essere remunerativa anche per la tecnologia più costosa. Il gas, appunto. Così si arriva al meccanismo perverso per cui anche chi ha una fornitura 100 per cento rinnovabile, si vede salire il prezzo anche se in teoria non dovrebbe subire alcun aumento. Ma non è così.
Quella che si è venuta a creare è una sorta di “tempesta perfetta” con varie concause. La prima è stata la ripresa post-Covid, nessuno si aspettava che l’economia riprendesse così rapidamente e c’è stata una grande richiesta improvvisa e globale di energia e materie prime. Questo ha portato a uno shock nei meccanismi di domanda e offerta. Poi ci sono i fattori geopolitici legati principalmente alla Russia, il più grande fornitore di gas dell’Europa. All’Italia fornisce il 40 per cento del fabbisogno. Noi dipendiamo fortemente dalla Russia e questo può cambiare in fretta le nostre sorti. E così è accaduto: la Russia ha aumentato la forniture alla Cina, diminuendo quelle all’Europa. Nel frattempo il gasdotto Nord Stream 2, che collega direttamente la Russia alla Germania, non è entrato in funzione. Quindi – in pieno inverno, quando c’è più bisogno – si è creato uno sbilanciamento tra domanda e offerta di gas. Contestualmente, la tensione con l’Ucraina ha esacerbato tutto, assieme alle onnipresenti speculazioni sui mercati. Insomma, saremo legati alla fornitura energetica russa fintanto che non ci stancheremo e decideremo di andare altrove, verso le rinnovabili.
Il nostro Paese ci rimette più di altri perché siamo troppo dipendenti dal gas. Il gas rappresenta il 40% dei nostri consumi primari, è la percentuale più alta dei grandi Paesi europei: la media europea è del 24-25 per cento. Una quota vicina a quella della Russia stessa, del Turkmenistan, insomma dei grandi produttori di gas. Quindi l’Italia sconta un legame patologico con il gas che ha radici storiche. Abbiamo puntato molto sul gas anche perché si è chiusa da tempo (per fortuna) l’opzione nucleare. Da questa dipendenza bisogna uscire perché la caratteristica principale delle fonti fossili è che bisogna rifornirsi ogni giorno, ogni ora, ogni minuto. Affinché le nostre case siano riscaldate, il gas deve arrivare in continuazione. E la catena di approvvigionamento è piuttosto complicata: ci scaldiamo con un combustibile pescato nel sottosuolo a migliaia di km di distanza, nella tundra siberiana o nel sahara algerino. Non illudiamoci che le misere risorse residuali di metano nazionale – un anno di consumi in tutto, dati MITE – cambieremo le nostre sorti. E ancor meno le nostre bollette.
Ogni due o tre anni, da decenni, ci svegliamo una mattina e diciamo: «Ops, abbiamo un problema. Le bollette schizzano e la benzina è alle stelle!». Questa modalità emergenziale non porta lontano: se ne vogliamo uscire, una volta per tutte, dobbiamo cambiare strada. E investire sulle rinnovabili. Questo tipo di energia ha un costo di investimento iniziale elevato, ma in calo costante. Una volta che hai installato un impianto che sfrutta flussi rinnovabili sei però apposto per sempre: il flusso è perenne e gratuito. Il costo sarà zero tra dieci, venti o cento anni, a meno che lo Stato non decida di tassare il sole. In Italia la transizione energetica fa i conti con un forte istinto conservativo. Prevale talvolta l’arroccamento sull’esistente, così perdiamo tempo prezioso. Se ci fossimo mossi venti o almeno dieci anni fa, il nostro sistema industriale oggi sarebbe meglio equipaggiato per far fronte ai cambiamenti in atto. Andiamo ad analizzare le fonti nello specifico: l’Italia ha un grande potenziale idroelettrico sui suoi monti, ma essenzialmente già sfruttato. Circa il 20 per cento del fabbisogno nazionale è soddisfatto dall’idroelettrico, percentuale oscillante a seconda dell’andamento delle precipitazioni, che è minacciato dal cambiamento climatico (nevica sempre meno). Poi abbiamo le due tecnologie che potremmo definire “di spinta” della transizione: eolico e fotovoltaico. L’eolico in Italia ha dei limiti. Il territorio più adatto per posizionare delle pale sarebbe la pianura padana. Piatta, con ampia disponibilità di terreni agricoli, non sarebbe tanto diversa dai campi olandesi o danesi che sono impressi nel nostro immaginario. Peccato che da noi non tiri un alito di vento. Poi ci sono le lamentele incomprensibili, come quelle sollevate per l’installazione di pale al largo dell’Adriatico. Gli impianti sarebbero molto lontani dalla costa e il paesaggio non ne risentirebbe in modo rilevante, a fronte di energia pulita prodotta in grandi quantità. Ma il pesce grosso per l’Italia resta il fotovoltaico. Chiariamo una cosa: pensare di risolvere il fabbisogno di elettricità al 100 per cento con una sola tecnologia è una follia, per varie ragioni. Ma per il fotovoltaico ogni superficie già coperta è una piattaforma utilizzabile. Da qui al 2030 o 2050, le nostre date di riferimento, il 70-80 per cento di nuovo rinnovabile sarà fotovoltaico, per una ragione molto semplice: il sole non ci manca, è una tecnologia poco invasiva, silenziosa, che si integra sui tessuti urbani e industriali esistenti. Anche qui ci sono opposizioni, qualcuno sostiene che servirebbero superfici immense. È una sciocchezza colossale ed è sotto gli occhi di tutti: già oggi produciamo quasi il 10% del nostro fabbisogno col sole e non abbiamo tappezzato quasi nulla. La quantità di energia che arriva dal sole è immensa e le superfici necessarie sono molto limitate. In Italia abbiamo migliaia di chilometri quadrati di tetti di case e capannoni, oltre a enormi aree industriali dismesse. In Italia abbiamo una fantastica industria manifatturiera e le rinnovabili sono manifatturiero. La Cina non potrà produrre da sola tutte le rinnovabili per 200 nazioni in transizione, tutte insieme. Ci sarà lavoro per tutti. Ma c’è anche altro dietro alla svolta green che non decolla.
Il primo ostacolo alla transizione energetica è la burocrazia. Oggi chiunque voglia fare un impianto fotovoltaico si trova in difficoltà, perché c’è un sistema di leggi non lineare, è un patchwork di provvedimenti che sono stati messi insieme nel tempo e nei decenni. In Italia non succede mai che esce una nuova legge e quella di prima la cancelliamo, riscrivendo tutto daccapo per rendere le norme chiare a tutti. No! Esce una legge, che si rifà a 18 leggi precedenti. Dopodiché ci sono le interpretazioni dell’Agenzia delle entrate, dei Ministeri dell’Enea, e così via. Poi ci vuole l’autorizzazione della Regione, del Comune, della Sovrintendenza. Vi sentite già stanchi, a sentire tutti questi passaggi? Anche tutti i cittadini e gli imprenditori che hanno provato a convertirsi alle rinnovabili. Oltre alla burocrazia, c’è qualcun altro non ha mai facilitato questo passaggio. In Italia – come in tutti i Paesi – freni rilevanti alla transizione sono le grandi aziende degli idrocarburi, che puntano i piedi per ritardare le scelte (difficili) da fare e allungarsi la vita. Comprensibile dal loro punto di vista, non dal nostro.
Cosa faranno Eni e Snam nel mondo “carbon neutral” del 2050? Il loro core business è l’estrazione, il trasporto e la vendita di idrocarburi. Nell’epoca d’oro oil&gas sono state aziende simbolo dell’eccellenza italiana in questi settori. Quell’epoca è ai titoli di coda. Le loro attività tradizionali dovranno essere progressivamente ridotte, per essere chiuse entro una generazione. Non lo dicono solo gli scienziati, ma anche l’Agenzia Internazionale per l’Energia, che a maggio 2021 ha pubblicato una roadmap della transizione entro il 2050. Il documento indica misure drastiche, ad esempio vietare la vendita di caldaie a gas dopo il 2025 o sospendere la ricerca di nuovi giacimenti di idrocarburi, perché bastano e avanzano quelli già scoperti per mettere KO il clima. La roadmap ha suscitato un putiferio: le grandi aziende oil&gas hanno abbozzato, prese in contropiede da un’agenzia che ha sempre avuto un occhio di riguardo nei loro confronti. Pochi giorni dopo, è arrivato il “mercoledì nero” delle compagnie petrolifere. La sentenza di un tribunale olandese ha obbligato Shell a innalzare gli obiettivi di abbattimento dei gas serra. Nel frattempo, negli Stati Uniti, si è abbattuta una tempesta su altre due aziende del settore, Chevron e ExxonMobil, messe in grande difficoltà da piccoli azionisti che rilevano la mancanza di piani credibili di decarbonizzazione. Le motivazioni dei ribelli sono molto concrete: l’immobilismo ambientale creerà un forte danno economico agli azionisti, e sui soldi non si scherza. Quando esplodono crisi epocali per un settore industriale, le aziende hanno due opzioni: cambiare radicalmente o prolungare l’agonia fino alla morte. Alcune proposte che le due aziende italiane stanno avanzando, come il sequestro geologico della CO2 a Ravenna o l’utilizzo di gasdotti per trasportare miscele idrogeno/metano, vanno nella direzione dell’agonia. Questo è un problema per tutti, poiché le aziende in questione garantiscono dividendi importanti per il bilancio statale e milioni di persone hanno investito risparmi nelle loro azioni. Del resto, salvare a ogni costo chi è destinato a uscire dal mercato è inutile. Le vicende di Kodak, Nokia e Blockbuster insegnano. È un momento cruciale per queste due grandi aziende italiane, un tempo all’avanguardia, servono decisioni coraggiose e lungimiranti. E non resta molto tempo.
Petrolio e gas ancora da scoprire debbono rimanere dove sono, per evitare la catastrofe climatica: “keep it in the ground”, come dicono numerosi gruppi di scienziati e ambientalisti. Ci sarebbero vari modi per Eni per uscire dal suo business storico. È un’azienda con grande competenza in campo geologico, che andrebbe distolta dagli idrocarburi e reindirizzata altrove. La geotermia ad alta e bassa temperatura (pompe di calore, per intenderci) è un settore destinato a crescere in modo esponenziale, così come l’accumulo stagionale di calore. Ci sono milioni di pozzi da trivellare in tutto il mondo. Non per estrarre petrolio e gas, ma calore. L’altra riconversione possibile per Eni, che è un’azienda mineraria, sarebbe sviluppare nuove competenze nell’ambito dei minerali necessari alla transizione energetica: litio, nichel, cobalto. Poi c’è la possibilità di lavorare sui biocombustibili (quelli sostenibili davvero, non quelli prodotti a partire dall’olio di palma importato dall’Asia orientale). O ancora, la produzione di combustibili sintetici è una opzione di grande prospettiva. Cosa sono? In futuro per muovere navi e aerei su lunghe distanze (non potranno andare a batteria!) potremo utilizzare solo idrocarburi non fossili, prodotti a livello industriale. L’idrogeno dovrà essere estratto dall’acqua, il carbonio dovrà essere biogenico o di riciclo. La seconda è una sfida scientifica e tecnologica enorme e su questo Eni può giocarsi un ruolo di grande rilevanza, utilizzando anche il suo know-how.
Per Snam la situazione è più complessa. Il suo core business è la gestione della rete di trasporto del gas. Snam non compra e vende gas, lo trasporta. Il suo asset chiave è quindi la rete. Partendo da questo fatto, nell’ultimo anno ha sviluppato un’affascinante narrazione sull’utilizzo dei metanodotti esistenti per trasportare idrogeno o miscele metano-idrogeno. Purtroppo la questione è molto più complessa di come è stato raccontata e recepita dal grande pubblico. L’idrogeno è la molecola più piccola dell’universo e ha delle caratteristiche chimico-fisiche molto particolari. Si infiltra ovunque, per esempio nelle saldature dei metanodotti, spesso vecchi di 50 anni e che non sono adeguati. La probabilità di incidenti gravi in caso di perdite di idrogeno è maggiore rispetto alle reti del metano. Anche la compressione si complica: per veicolare una certa quantità di energia, è richiesto un volume di idrogeno tre volte maggiore rispetto al metano. In breve: per l’idrogeno occorrerebbe un’infrastruttura dedicata, che avrebbe un costo esorbitante. Avremo probabilmente reti regionali, ma non reti transcontinentali: l’idrogeno meno viaggia e meglio è. L’Italia si candida a essere un attore importante nel mercato dell’idrogeno. Dobbiamo però considerare esclusivamente quello verde, cioè prodotto da fonti rinnovabili. Quello blu con sequestro della CO2 è un’illusione tecnica, ambientale ed economica: non esisterà mai su vasta scala. L’idrogeno sarà importante sul medio-lungo termine, per lo stoccaggio stagionale: immagazzineremo gli eccessi di sole estivi in idrogeno, da utilizzare in inverno. Inoltre dovrà essere utilizzato laddove non esistono alternative più facili ed efficienti come i trasporti pesanti e i settori ‘hard to abate’ (acciaio, vetro, cemento). Non certo nel trasporto leggero: l’auto a idrogeno è già morta, consuma più del triplo di un’auto a batteria e non esiste una rete di distribuzione e rifornimento. Recentemente abbiamo pubblicato un’analisi che considera tre usi minimali dell’idrogeno al 2030 in Italia: convertire a verde l’attuale idrogeno grigio (da metano), rendere verde la produzione di acciaio a Taranto e coprire il 2% degli usi finali nazionali. …Beh, richiederebbe circa 70 gigawatt di fotovoltaico. Che significa il triplo di quello che abbiamo adesso, in soli dieci anni. Assai improbabile. Purtroppo non è vero che l’idrogeno sarà il nuovo metano a breve. Prima di 10 anni, non avremo nulla di sigbificativo.
Siamo ancora indietro nel cambiare il rapporto verso questo nostro pianeta, bellissimo e fragile. Dobbiamo mettercelo in testa: abbiamo fretta. Ma non solo noi italiani, tutto il mondo. Dobbiamo fare una transizione energetica entro il 2050 e non abbiamo alternative. L’alternativa non è l’Eldorado, ma è il torrente che ci entra in casa o la frana che si riversa in azienda. La transizione non serve per far piacere agli ambientalisti o per essere politically correct, la transizione è necessaria per noi e per i nostri figli. Non c’è alternativa, non c’è un piano B. Per questo è fondamentale il ruolo dei governi e la loro competenza. Per affrontare l’emergenza Covid-19 abbiamo istituito un Comitato tecnico-scientifico. Quando avremo un Comitato tecnico-scientifico per l’emergenza energetica ed ecologica? Le crisi pandemiche sono crisi a picco, cioè vanno a ondate, ma prima o poi si spengono: nessuna civiltà è mai scomparsa per una pandemia. La crisi clima-energia è una crisi a baratro, che può davvero spazzarci via. Quando parte lo scioglimento dei ghiacci antartici, non c’è una tecnologia che ti permette di tornare indietro. Il vaccino contro la crisi energia-clima, non esiste. Il vaccino è solo cambiare strada. In fretta.