Open Arms, la storia di Amina, tra i migranti a bordo
Amina è una ragazza di 21 anni, sguardo timido e sorriso dolce. Mi racconta che è in viaggio da sola e che scappa dalla Nigeria per “motivi religiosi”, dove Boko Haram ha rapito numerose ragazzine come lei o più giovani, riducendole in schiavitù.
Amina e le altre donne hanno uno spazio riservato nei pochi metri quadri del ponte di poppa della Open Arms, è un’attenzione doverosa che riserva l’equipaggio a tutte le donne dopo ogni soccorso per evitare che stiano a contatto con gli uomini. Quello che avviene in Libia è stato denunciato da tutte le donne superstiti e dalle organizzazioni internazionali: stupri e violenze sono all’ordine del giorno, spesso per puro divertimento dei carcerieri, altre volte come forma di ricatto per le famiglie.
Se non pagano vieni stuprata, se pagano e vogliono divertirsi vieni stuprata lo stesso. Se vogliono dimostrare chi comanda, vieni stuprata.
Sul ponte della Open Arms le donne sono molte e la gran parte ha creato una comunità. Alcune invece sono in un angolo e non parlano, preferiscono il silenzio. Tra di queste vedo una ragazza, poco più che ventenne, con dei punti sulle labbra. Le sorrido timidamente, lei accenna un sorriso per come può, le chiedo se parla inglese o francese, mi dice di no e si gira per tornare nel suo silenzio e io non insisto.
Amina invece sorride mentre tiene in braccio un bambino piccolo, troppo chiaro per essere il suo ma nonostante questo lo accudisce, lo fa mangiare, ci gioca. Il bambino è Moussa, uno dei due gemellini di 9 mesi che erano a bordo con la mamma e il papà ma che sono stati adottati da tutte le persone sulla nave. Questa scena avviene il 9 Agosto, il giorno in cui Richard Gere è andato a bordo della Open Arms per portare acqua, cibo e solidarietà, facendo parlare tutto il mondo del caso delle persone bloccate a bordo da giorni.
Sono passati 11 giorni e Amina la vedo piangere disperata in un video pubblicato dalla ONG Proactiva Open Arms mentre altre persone si sono tuffate in mare per cercare di raggiungere l’isola a nuoto. Un gesto disperato dopo oltre due settimane di attesa. La situazione a bordo è caotica e il nervosismo traspare anche dal video. Amina piange disperata, Anabel Montes, capa missione a bordo, cerca di calmarla ma è in preda ad una crisi e lei continua a piangere e ad urlare.
I volontari lo dicevano da giorni: “La situazione a bordo è tesa, non riusciremo a gestire altri momenti di tensione” che non si sono fatti attendere. Non deve essere facile veder scendere prima i casi sanitari più difficili, poi altri con problemi sia sanitari che mentali, poi i minorenni e intanto la maggior parte delle persone, apparentemente sane, resta a bordo, aspettando un ordine che sembra arrivare ma che non arriva.
Il problema sta tutto in quel “apparentemente sane”, perché Amina e le altre persone a primo impatto stanno bene, non hanno segni di tortura sul corpo e non mostrano cedimenti psicologici, fino ad ora. Basta però farle qualche domanda per capire che quello che aveva passato in Libia era qualcosa che si portava dietro. “Se ti va raccontami di come è andato il viaggio” è stata la domanda che ha scatenato una reazione improvvisa, inaspettata, che non collima con quel “apparentemente sane”: le lacrime nascoste, la testa che faceva no, come a non voler ricordare.
Amina è una ma a bordo o ancora in viaggio ce ne sono tante altre. Nel video diffuso da Open Arms è lei a piangere, sfinita dall’attesa di una nuova vita, quella che tutti aspettano. “Non è importante il Paese dove attracchiamo, per me l’importante è stare bene ed essere sicura” mi ripeteva quando parlavamo del futuro.
Finito il pianto resta l’attesa per lo sbarco, l’assegnazione di un porto sicuro e di un sistema automatico di distribuzione delle persone in arrivo in modo che non siano solo Italia, Spagna e Grecia a farsi carico degli arrivi ma soprattutto che le prossime Amine, quelle che stanno “apparentemente bene” non debbano aspettare uno porto fino ad una crisi nervosa.
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