Open Arms | Reporter di TPI a bordo | Giorno 3 | Mi ricordo ancora la prima volte che vidi la Open Arms. Era un anno fa ed eravamo al porto di Mallorca. Era appena sbarcata Josepha, trovata viva insieme ad altri due corpi: una donna e un bambino. Quando vidi la nave mi sembrò piccola, piccolissima, rispetto a quanto ne avevo sentito parlare e all’idea che portava con se: salvare vite in mare senza chiedere il passaporto.
35 metri per 22 persone, un continuo tetris tra la cucina, i bagni e i turni di lavoro. Se non si è convinti di quello che si sta facendo, è davvero difficile sopportare la convivenza forzata.
Sveglia alle 5:30, tempo di lavarsi e mettere sulla piastra il caffè che alle 5:55 bisogna essere sul ponte per la guardia. Questo è il turno dei due giornalisti-fotografi a bordo perché c’è sempre la luce migliore, l’alba. Anche se poi, a dire il vero, dopo tre mattine consecutive diventa monotona anche questa situazione.
La convivenza in 35 metri porta a raccontarsi, conoscersi. Letizia Cabo è la dottoressa di bordo ma soprattutto è una persona che nel gruppo tiene alto il morale con il suo sorriso.
A parte i saluti iniziali e qualche parola detta velocemente, la prima volta che parlo con Letizia è a pranzo, mentre racconta di quando ha lavorato a Calais. Per me è come se dicesse una parola magica che apre subito un canale di comunicazione preferenziale. La giungla di Calais è stato per anni il campo profughi più grande in Europa. Circa 10.000 persone vivevano in baracche e tende a pochi chilometri dalla città che dava il nome a questo campo e, soprattutto, all’ultima stazione del treno che attraversa la manica e porta nel Regno Unito, luogo dove volevano andare tutti e 10.000.
Dopo pranzo la fermo e chiedo di raccontarmi meglio la sua esperienza: “Sono qua proprio grazie a quel luogo dove ho conosciuto un ragazzo di 16 anni e sua mamma che mi raccontavano di un gruppo di spagnoli che faceva salvataggio in mare a Lesbo. Mi hanno chiesto di cercarli e di ringraziarli perché erano vivi solo grazie a loro”, mi racconta con un po’ di commozione.
Lei li ha trovati e ringraziati ma soprattutto dopo due settimane era con loro a Lesbo come volontaria. “Sono un medico e la mia specializzazione è sulle emergenze e quello che sta succedendo nelle frontiere europee mi ha portato a mettermi a disposizione degli altri, di chi ne ha bisogno”.
Letizia è una di quelle persone che in Italia chiameremmo “un’eccellenza”. Opera nella ambulanze ma soprattutto sugli elicotteri, quando c’è un problema grande, un incidente o qualcosa del genere, arriva Letizia.
“A bordo delle navi il problema che va risolto subito è la disidratazione e, in inverno, l’ipotermia. Nelle ore successive i problemi più grandi li abbiamo con le donne, tutte hanno subito abusi sessuali e molte di loro sono in gravidanza. Come puoi immaginare il problema non è solo fisico ma psicologico. Gli uomini invece hanno spesso ferite provocate dalle torture subite”.
In questo momento il sorriso di Letizia diventa un ghigno, come se sentisse lei stessa una fitta di dolore. Immagino non sia facile fare questo lavoro tutti i giorni, senza poter mai staccare. Sono storie ascoltate e lette tante volte, ma curare le ferite e ascoltare i racconti della Libia e del lungo viaggio che affrontano le persone prima di arrivare “in mare” è qualcosa di diverso.
La lascio andare perché deve terminare l’inventario ma nel pomeriggio siamo di nuovo insieme. Con grande esperienza e facilità ci dimostra alcune tecniche per fissare nella barella eventuali persone che non possono deambulare da sole. In un soccorso può succedere e chi è sul rihb deve essere preparato. Montiamo di nuovo la guardia, il turno della sera è speculare a quello della mattina, 18:00-21:00. Il sole tramonta e la Open Arms, quella nave di soli 35 metri, continua a navigare verso sud, per fare quello che è giusto fare: Salvare vite.
Open Arms | Diario di bordo del reporter di TPI | Giorno 2
Open Arms | Diario di bordo del reporter di TPI | Giorno 1