Open Arms | Reporter di TPI bordo | Giorno 12
Uno scalo tecnico che ha allarmato l’Italia. Non appena la Open Arms si è avvicinata a Lampedusa molti giornalisti e politici hanno iniziato a chiamare, scrivere e (chi non aveva contatti diretti) fare congetture.
In una trasmissione televisiva si è parlato addirittura di ingresso senza autorizzazioni quando invece già due giorni prima c’era il permesso per uno scalo tecnico sull’isola, giusto il tempo di cambiare parte dell’equipaggio, fare la spesa e ripartire.
Meno di 48 ore per bere un bicchiere di vino, mangiare una pizza e qualche cannolo e tornare a pattugliare. Per il lavoro ho avuto il tempo giusto di fare un salto al cimitero dei barconi e di incontrare Mediterranean Hope, l’organizzazione che fa capo alla Federazione delle Chiese Evangeliche e che nell’isola ha un presidio stabile da anni.
Parliamo di quelli che vengono chiamati “sbarchi spontanei” e di come Lampedusa sia stata sotto l’occhio del ciclone prima con il caso Sea Watch e poi con Mediterranea.
Per quest’isola così piccola non deve essere facile affrontare tutta questa attenzione. Qua si vive di pesca e turismo, anche se negli ultimi anni la presenza di molti militari ha visto la loro permanenza anche durante la stagione invernale, affittando le case con continuità.
Visto che siamo in alta stagione e i locali sono pieni, per fare un “passaggio di consegne” tra i vecchi e i nuovi volontari ci fermiamo in un bar non centrale dove possiamo sederci tutti. Siamo in tanti e approfittiamo per fare due chiacchiere e bere una birra, un momento di relax totale in cui ci si saluta e ci si abbraccia. Chi va via è triste ma anche chi resta ha un velo d’ombra perché con queste persone si è condiviso molto, sia nella fase operativa che nella vita quotidiana, 15 giorni in cui emozioni, pasti, turni di guardia notturni e di pulizia gomito a gomito suggellano amicizie. Chi arriva si guarda attorno, vuole capire chi sta andando via e chi resta, per capire con chi affronterà i giorni successivi.
Il tempo di finire la birra e iniziano gli abbracci e i saluti. Alla banchina ci sono ancora tutti, è il momento di dividersi. Il motore della Open Arms è acceso e si sta scaldando per poter partire a breve, direzione sud, zona SAR (Search and rescue).
Passo a salutare il capo dei macchinisti, Ciscu, un catalano apparentemente spigoloso ma con un cuore enorme. È nel suo “regno”, tra i motori che spingono i 35 metri di nave. Nei giorni passati mi ha raccontato delle altre missioni a cui ha partecipato, dei soccorsi effettuati e dei giorni trascorsi in mare con i migranti. Nonostante maneggi più olio motore che acqua salata, Ciscu è un vero uomo di mare. Cresciuto in questo ambiente, ama dire di sé che è specializzato in “motori vecchi”, di quelli che danno problemi se non li sai manutenere, ma che alla lunga non ti tradiscono mai.
“Lasciare qualcuno in mare è criminale”, mi ha detto una sera mentre parlavamo. Lui non è un volontario, non viene dal mondo umanitario e non ha l’ambizione di salvare il mondo. Fa il suo lavoro bene, ma non dimentica che è un essere umano. “Il nemico più grande è il mare”, ripete spesso, perché come tutti i marinai ama il mare, lo teme e lo rispetta. Deve lavorare e lo lascio ai suoi cavalli, al suo olio.
Anche se è sera inoltrata iniziamo subito con le riunioni operative, la SAR è molto vicina, potremmo dover intervenire nelle prossime ore e ci sono molti volontari nuovi. La mattina continuiamo da dove avevamo finito la notte precedente e approfittiamo del fatto che il mare non è ancora molto mosso per delle esercitazioni in mare. Questa missione, almeno per me, sarà lunga.
Dopo 15 giorni a bordo e 36 a terra, farne altri 15 in mare è mentalmente stancante. Si ha voglia di una stanza singola, di una doccia che non si muova e altre piccole cose, non ultima maggiore privacy. Però quello che facciamo qua è più importante di queste cose, i bisogni personali possono aspettare. Intanto il mare ha iniziato a muoversi molto, non saremo fortunati come la scorsa missione.
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