Omicidio Carol Maltesi, la sentenza shock con cui i giudici hanno negato l’ergastolo: “Davide Fontana si sentì usato”
“Non può essere considerato abietto o futile in senso tecnico-giuridico”. L’assassino di Carol Maltesi è stato condannato a 30 anni anziché all’ergastolo perché non avrebbe agito con crudeltà né con premeditazione. Una decisione destinata a far discutere, spiegata nelle motivazioni da poco depositate dal tribunale di Busto Arsizio.
Secondo i giudici, Davide Fontana ha commesso l’omicidio perché l’attrice 26enne “si stava allontanando da lui, scaricandolo” per trasferirsi dal figlio di 6 anni a Verona. Il 44enne bancario e food blogger ha ucciso la donna l’11 gennaio 2022, mentre lei girava un film hard nella sua casa di Rescaldina, colpendola a martellate e strangolandola. Poi ha tagliato il cadavere in 18 pezzi, nascondendo per diverse settimane in un freezer ordinato su Amazon, ha tentato di bruciare i resti con un barbecue e ha finito per gettarli in un burrone nel bresciano, dove sono stati scoperti solo casualmente da un passante a fine marzo 2022.
Nei messi successivi all’omicidio, l’uomo si era spacciato per la vittima sui social, rassicurando amici e parenti che stava in viaggio all’estero e sarebbe presto rientrata in Italia. Un “mostro maledetto” lo ha definito il padre della vittima, Fabio Maltesi, dopo la sentenza che ha condannato Fontana a 30 anni e non all’ergastolo.
La Corte d’assise, presieduta dal giudice Giuseppe Fazio, sostiene che “a spingere l’imputato non fu la gelosia ma la consapevolezza di aver perso la donna amata, accompagnata dal senso di crescente frustrazione per essere stato da lei usato e messo da parte”. Ferraro, secondo i giudici, “si è reso conto che la giovane e disinibita Carol si era in qualche misura servita di lui per meglio perseguire i propri interessi personali e professionali e che lo avesse usato, e ciò ha scatenato l’azione omicida”. In altri termini, “l’idea di perdere i contatti stabili con colei che egli, per sua stessa ammissione e secondo l’amica testimone, amava perdutamente, da cui sostanzialmente dipendeva poiché gli aveva permesso di vincere la sostanziale solitudine in cui si consumava in precedenza e di vivere in modo finalmente diverso e gratificante, si è rivelata insopportabile”. L’omicidio perciò “era un modo per venire fuori da questa condizione di incertezza e sofferenza non più sopportabile, innescata dalla decisione della stimolante donna amata di allontanarsi da lui”.
Secondo i giudici quindi “la causa scatenante non è da ritenersi turpe o spregevole più di ogni altro motivo che induca a un delitto cruento, poiché non è stata espressione di un moto interiore del tutto ingiustificato o un mero pretesto per lo sfogo di un impulso criminale”. Esclusa anche la premeditazione: il delitto “fu conseguenza di condotta voluta dall’imputato sorretta da dolo diretto se non da dolo intenzionale, ma non fu conseguenza di premeditazione”.
Riguardo lo scempio del cadavere, “non si può fare il grave errore di desumere la crudeltà nel realizzare l’omicidio dalla raccapricciante, orripilante condotta successiva e in particolare dall’agghiacciante gestione del cadavere e dello spaventoso scempio fattone, che tanto orrore ha suscitato nell’opinione pubblica”. L’uomo “compiuto l’omicidio, voleva liberarsi del cadavere definitivamente, definitivamente distruggendolo. Intanto cercava di nascondere in altro modo il decesso di Carol continuando a usare il suo smartphone e i suoi profili social. Tali condotte assorbono l’abbandono dei resti nella scarpata, perché voleva liberarsene e impedirne il ritrovamento”.