In una campagna vaccinale non sempre fortunata e in un clima di ostilità nel quale chi si vaccina sotto i quarant’anni appare come un eroe omerico, capita ancora di dover trovare qualche intoppo nei poli vaccinali.
Succede, ad esempio, al Sant’Andrea di Roma, fiore all’occhiello della sanità laziale, che, in quanto ad organizzazione come presidio vaccinale stenta a brillare come fanno, invece, altre location preposte ad altro (vedi l’Auditorium o la Nuvola dell’Eur, dove sembra di essere catapultati in un futuro radioso dove tutto funziona).
Al Sant’Andrea si viene accolti, per modo di dire, sotto i classici tendoni bianchi, che faticano a contenere le tante persone in attesa sotto un sole rovente sin dalle otto di mattina. Non c’è un’accoglienza vera e propria, ci sono due o tre addetti che fanno la spola tra la sala d’attesa, che non è una sala d’attesa, e l’esterno chiamando, con un ritardo medio di circa trenta minuti, i prenotati in attesa.
Nel girone infernale sotto il tendone dei prenotati si fa fatica a sentire la voce sempre più flebile dell’addetta, che nel frattempo smista e informa i poco furbi che si rivolgono a lei per avere informazioni, chiama i prenotati , fa saltare le sedie a quelli in attesa di entrare nell’infermeria e litiga con i tanti genitori furiosi che hanno scoperto solo lì che per vaccinare i figli minorenni dovevano presentarsi entrambi oppure produrre una delega, rigorosamente cartacea come alla USL degli anni Settanta, un documento e forse, anche il beneplacito di Figliuolo.
“Se m’avvertivano je portavo tutto”, commenta sconsolato l’ennesimo mono-genitore costretto ad arrivare a Labaro per stampare l’ambita delega e la fotocopia del documento dell’altra metà genitoriale. Ma l’avviso non è arrivato a nessuno. Così come nessuno è preparato a fare un vaccino, realizzato in dieci mesi per contrastare una pandemia, al figlio minorenne sotto il sole di luglio.
“Signora se va a fare un qualsiasi documento questa è la prassi”, ribatte un medico scocciato dalle lamentele dell’ennesima mamma rimbalzata all’accettazione, perché priva di tutta la documentazione richiesta. La mamma – eroina omerica – avrebbe dovuto controbattere spiegandogli che in America ti vaccinano anche dentro i tabaccai, con un cappuccio bianco in testa mentre parli in aramaico antico.
In Italia e, soprattutto al Sant’Andrea, no.
Invece di invogliare i genitori a far vaccinare i propri figli minorenni, i più esposti in questo momento storico, quelli che, quasi sempre asintomatici, permettono al virus di continuare a girare, mutare e colpire, al Sant’Andrea riuscirebbero a far passare la voglia di inocularsi anche a Burioni.
Cosa che a Roma, adesso, non ci si può proprio permettere.
Basta guardare le file per effettuare i tamponi molecolari (che quindi presuppongono una positività riscontrata con l’antigenico), che somigliano molto a quelle di marzo, oppure il ritrovato rumore delle sirene delle ambulanze, che iniziano ad aumentare, oppure, semplicemente, fare la conta di quante persone positive si conoscono direttamente o come amici di amici.
Roma è una bomba pronta ad esplodere a settembre e non si può lasciare che sia la burocrazia ad innescarla.
La comunicazione, vera responsabile delle tante storture di questa campagna vaccinale, andrebbe rivista.
Insieme alla mail o al messaggio di conferma della prenotazione del vaccino, i genitori dei minorenni dovrebbero ricevere la lista dei documenti da portare. O almeno non scoprirlo da un addetto che mostra sconsolato il regolamento appeso al muro, come se fosse la tavola dei Dieci Comandamenti, dicendoci che lo trovavamo anche sul sito dell’Ospedale, come se l’Azienda ospedaliera Sant’Andrea fosse il sito più consultato della nazione insieme a Dagospia.
Senza voler mettere croci addosso a nessuno, perché c’è da dirlo, durante la pandemia la Sanità nel Lazio ha dimostrato di essere ai vertici non solo nazionali ma mondiali, si potrebbe lavorare di più nell’informare meglio e si potrebbe semplificare la parte burocratica, per invogliare anche i riottosi e per non far scappare i poco convinti.
E magari si potrebbe anche prendere esempio dalla gestione dei poli vaccinali non ospedalieri per non far sembrare l’accoglienza di quelli nei nostri nosocomi come l’ingresso di un campeggio degli anni Ottanta.
Altrimenti poi, qualcuno potrebbe iniziare a pensare che sia meglio privatizzare la Sanità.
Ma questo è un altro discorso.
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