Nelle conclusioni di una ricerca del 2006 condotta all’interno di un corso universitario di analisi delle politiche pubbliche sugli allora tre principali quotidiani italiani: il Corriere della Sera, la Repubblica e La Stampa, l’economista Antonio G. Calafati rilevava che non si sarebbe mai aspettato che sul Tav «giornalisti di indiscusso valore intervenissero nei maggiori quotidiani se non per declinare con argomentazioni prive di senso la loro opinione immancabilmente favorevole». E ancora, scriveva: «non mi aspettavo tanta superficialità, tanta fretta nell’affrontare una politica pubblica, un investimento infrastrutturale».
Il professor Calafati si riferiva alla linea ferroviaria merci Lione-Torino, uno dei progetti più impegnativi economicamente della storia italiana che negli anni, poi, sarebbe stata oggetto di una forte opposizione da parte delle comunità territoriali della Val Susa, ma non soltanto. Per lungo tempo, infatti, il movimento No Tav è stato un simbolo italiano della protesta contro le grandi opere giudicate inutili e dispendiose finanziariamente, oltre che dannose per l’ambiente, il clima, la salute e l’intero eco-sistema. A sostegno della contrarietà all’opera esiste un’ampia letteratura, anche di tipo scientifico, che ha ampiamente documentato come essa rappresenti un progetto disastroso per l’intera comunità nazionale. Eppure, la politica, a più livelli, ha sempre affrontato quella che è una questione estremamente seria con molta approssimazione, e con la lente esclusiva dell’ordine pubblico.
«Nessuna persona di buon senso può accettare che pochi teppisti facinorosi tengano in ostaggio un’intera valle». Erano di questo tenore le frasi di un senatore che per questo sarebbe stato condannato per diffamazione – come racconta il collettivo di scrittori Wu Ming – all’interno del romanzo storico sulla lotta No Tav, “Un viaggio che non promettiamo breve”. È stato il movimento sociale più partecipato degli ultimi 30 anni, di certo, ma anche il più «calunniato», secondo la celebre definizione data dal compianto giornalista Luca Rastello.
Paradiso perduto
Ora, invece, storie come quella di Nicoletta Dosio, insegnante in pensione di greco e latino che ha contribuito nel 1989 a fondare quel movimento, e che ha pagato nel 2020 all’età di 76 anni con il carcere la partecipazione a una manifestazione non autorizzata, sono diventate un film: “La scelta”, nelle sale dal 2 marzo. Scritto, diretto e prodotto da Carlo A. Bachschmidt, Stefano Barabino e Michele Ruvioli, e distribuito in collaborazione con Zalab, collettivo formato da alcuni dei filmmakers italiani che si sono maggiormente distinti a partire dagli anni 2000 per la produzione di un cinema indipendente e sociale, il film “La scelta”, come dice la stessa Nicoletta Dosio: «è l’esito di un lavoro decennale da cui riemergono dal passato i boschi, i sentieri, le acque, le rocce di un paradiso perduto, oggi sventrato dalle trivelle e dalle ruspe e trasformato dal ferro e dal cemento». E ancora: «è un’opera bella e commovente, frutto dell’impegno lungo, attento e coraggioso di chi, tramite la cinepresa, ha scelto da che parte stare».
«Quando abbiamo cominciato a lavorare al film non immaginavamo che per finirlo ci sarebbero voluti più di otto anni di riprese e quasi undici anni di lavorazione complessiva», spiegano gli autori, un collettivo di artisti che ha fatto dell’audiovisivo una forma di militanza politica autonoma. Almeno a giudicare da alcuni loro lavori del passato; quelli sulle violenze della polizia durante il G8 di Genova, per esempio, fonti preziose poi divenute anche materia dei processi contro le violenze delle forze dell’ordine. «Ovviamente, questo è un tipo di lavoro diverso», dice uno degli autori, Stefano Barabino: «non ci interessava raccontare la vittoria o la sconfitta della lotta ma che cosa si muove nella scelta di affrontarla». Parole a cui fanno eco quelle di Carlo A. Bachschmidt, il regista, che spiega: «Il nostro obiettivo, fin dall’inizio, non era di descrivere le ragioni della protesta, ma volevamo raccontare, quello sì, la resistenza e la dignità di queste persone, e così ci siamo immersi totalmente in quel contesto».
La ricerca della felicità
È la scelta di Luca Abbà, un attivista che proprio quando le riprese del film cominciano, rimane gravemente ferito cadendo da un traliccio dell’alta tensione su cui si era arrampicato per protesta, nel tentativo di rallentare l’apertura del cantiere a cui il movimento No Tav si opponeva. Luca Abbà è un agricoltore, uno dei proprietari di quei terreni da espropriare per la grande opera, ed è così che nel febbraio del 2012 per il timore di essere raggiunto dagli agenti di polizia, sale troppo in alto, e poi precipita da un’altezza di 10 metri dopo essere stato folgorato da una scossa elettrica. Luca rimane anche in coma per qualche giorno e in ospedale per alcuni mesi, ma lascia intendere che la lotta rimane una necessità: «Una scelta che ha reso molte vite più vere, più intense e più appaganti, umanamente e politicamente parlando», ci dice.
Le vite coerenti come quella di Dana Lauriola, attivista e portavoce del Comitato No Tav che un giorno di settembre del 2020 fu prelevata dalla Digos dalla sua casa di Bussoleno in Val Susa e portata direttamente nel carcere Le Vallette di Torino. La sua colpa era quella di aver spiegato attraverso un megafono le ragioni di un’azione dimostrativa pacifica condotta dagli attivisti No Tav otto anni prima, nel 2012, sull’autostrada Torino-Bardonecchia. Lauriola per questo è stata condannata a due anni di reclusione. Le scelte di Davide Grasso, giornalista, scrittore e militante No Tav che ha combattuto nella rivoluzione del Rojava e che oggi la guerra ha posto di fronte a un dilemma lacerante, come dice nel film: «Combattere o non combattere sono scelte entrambe sbagliate». Sono loro i protagonisti del film.
«Sta all’individuo soltanto la ricerca della propria felicità», dice ancora uno dei protagonisti; mentre quasi una ventina di governi italiani, in 30 anni, non sono riusciti a costruire nemmeno un metro di binario, ma a spendere qualche miliardo di euro nei progetti, quello sì, oltre a diversi milioni di euro nella sorveglianza dei cantieri da parte di carabinieri, esercito, guardia di finanza e polizia. Ed altrettanti soldi spesi nel sottoporre ad indagini 1.500 persone, istruire 50 procedimenti penali e un maxi processo con carcerazioni preventive e accuse durissime che vanno dall’associazione sovversiva al terrorismo. È il prezzo di una scelta: difendere una valle dalla devastazione e dal saccheggio.