Lo stop all’attività dello stabilimento non spegne la speranza degli operai della Whirlpool di Napoli. E soprattutto la voglia di combattere. “La nostra prospettiva è di lottare fino all’ultimo sangue. Fino all’ultimo minuto. La battaglia sta cominciando adesso”, ripete insieme agli altri Donato Aiello, rappresentante sindacale Fiom Cgil.
Sono le 17 di sabato pomeriggio, poche ore prima della dismissione ufficiale della produzione, fissata alle 24. Davanti alla fabbrica di lavatrici di via Argine ci sono una ventina di lavoratori impegnati in un presidio che sarà permanente. La produzione è in realtà già ferma da qualche giorno, ma il sito rimane ancora vivo, protetto dagli uomini che lo considerano una “seconda casa”.
La lotta per salvare il lavoro è l’unico vero punto fermo in una situazione che sembra offrire per il futuro più interrogativi che certezze. Il tentativo fallito del governo di convincere la multinazionale a tornare sui suoi passi ed evitare una chiusura ha generato un misto di delusione e rabbia tra i 355 metalmeccanici del sito.
“La stiamo facendo noi la battaglia di sovranità dello Stato. Se passa tutto questo, qualsiasi multinazionale potrà dire: come hai fatto con Whirlpool fai anche con me. Il pericolo è per tutti”, dice Aiello parlando di quella che definisce vittoria di un’azienda sulla politica. Il giudizio sul governo, che pure si è reso disponibile a mettere in campo ingenti risorse per provare a salvare la fabbrica (dagli incentivi alla decontribuzione e alle garanzie Sace), è severo. “Doveva dimostrare prima la perdita”, afferma il rappresentante sindacale. “A Conte chiederei la ragione per cui si è convinto che Whirlpool non possa rimanere in Italia”. E ancora: “Patuanelli ci ha raccontato solo frottole da quando fa il ministro. Nella propaganda elettorale fatta a Napoli, quando non c’era il Covid, ognuno ha detto che Whirlpool non se ne sarebbe andata”.
Una delle tappe cruciali della vicenda Whirlpool è l’accordo tra azienda ed esecutivo del 2018 che sembrava aver messo al sicuro la fabbrica di Napoli. A fine maggio 2019 la nuova vertenza. E da allora tante rassicurazioni ma nessuna svolta. “Posso fare una battuta in un momento drammatico? Sembrava ‘Scherzi a Parte’”, dice Aiello commentando le posizioni di azienda e governo emerse in questi giorni. Tutto accade – afferma il rappresentante sindacale – “dopo 18 mesi di lotta in cui abbiamo dimostrato in tutte le forme che Whirlpool non poteva andare via”, una “multinazionale con 5mila dipendenti, con un profitto in un momento di pandemia, assunzione di 700 interinali, aumenti di produzione in tutti gli stabilimenti”.
Ripete lo stesso concetto anche Vincenzo Accurso, rsu Uilm. “Siamo delusi e ci sentiamo abbandonati per l’atteggiamento che il governo ha avuto in questi 18 mesi”, dichiara. “All’inizio ha sempre detto che avrebbe trovato delle soluzioni e non avrebbe permesso che la multinazionale andasse via. Finita la campagna elettorale e i proclami non ha trovato soluzioni e ieri ci ha ribadito solo la posizione dell’azienda facendo quasi da portavoce”.
Il sito, ora, con i presidi continui “rappresenta una base di partenza”. “Se lasciamo il sito consentiamo alle multinazionali e anche al governo di creare un precedente per il Paese. Strappare un accordo ministeriale significa creare un danno non solo ai lavoratori della Whirlpool ma all’Italia intera. Il lavoro da difficile diventerà precario per tutti”.
Da dove si riparte quindi? Con quali aspettative? La battaglia che inizia ora, per i lavoratori, segna una “nuova fase”, prosegue Accurso. “La nostra è una pressione enorme nei confronti della multinazionale e soprattutto del governo. Sappiamo che la soluzione devono trovarla loro. Il governo deve creare gli strumenti e le condizioni per far sì venga rispettato l’accordo. Metteremo in campo qualsiasi azione. Il nostro compito è far comprendere agli altri cittadini quanto può essere importante salvare questa fabbrica”.
Su un cartellone poco distante dal cancello d’ingresso sono già indicati nuovi turni. Per ogni fascia di orario ci sono nomi, codici e firme. Gli operai torneranno allo stabilimento, alternandosi, ma questa volta solo per tenere accesa la loro battaglia. Parlano di “resistenza”. Seduto vicino ai tornelli c’è anche un pensionato. Giuseppe, 70 anni, racconta di aver iniziato a lavorare nello stabilimento di Varese nel ‘66, alla Ignis Nord, poi il trasferimento a Napoli, e tutta la trafila in azienda, con Borghi, Philips e infine Whirlpool. “Quando arrivò la Whirlpool festeggiammo, era un’azienda americana, mondiale… poi abbiamo visto che fine abbiamo fatto”, dice dimostrando di sentirsi ancora parte della famiglia. Ricorda tutte le fasi della storia dello stabilimento, dai riconoscimenti alle sofferenze. Racconta di essere scoppiato in lacrime in questi giorni. “All’inizio prendevo 95 lire all’ora, questo stabilimento lo abbiamo avviato noi, ho dato il mio sangue”. Ora nella fabbrica c’è suo figlio, padre di 4 bambini, anche lui seduto a discutere tra i presidianti.
“Stiamo organizzando turni di 20 persone ogni 8 ore, in modo da ‘girare’ 7 o 8 volte in un mese. Riusciamo a fare 16 turni. Quando poi si riuscirà a manifestare, riuniremo tutta la fabbrica di nuovo”, spiega Luigi D’Antonio, rappresentante sindacale Fim Cisl, che si dice “incazzato come lavoratore e uomo” e che sottolinea il grande valore sociale della fabbrica in una terra già martoriata dalla disoccupazione.
“Sono di Ponticelli”, dice. “Negli anni ‘80 in questo territorio c’erano 200 morti all’anno (per la criminalità, nda). Per salvaguardare i miei figli vado a lavorare notte e giorno per portare salario. Siamo monoreddito. Vado a lavorare per non lasciare i miei figli in mano alla criminalità”. Lo ripete anche Aiello: “Se mettiamo i piedi fuori da questi cancelli c’è solo camorra, malavita, cose illecite. Abbiamo sempre lavorato con dignità, togliercela diventa un disastro da cui non si può recuperare. Uno a 50 anni che prospettiva ha di finire di pagare il mutuo, un affitto, acqua, luce, con figli che lavorano a intermittenza?”. E il discorso torna sempre alla politica: “Tutti gli ultimi governi hanno detto che bisognava ripartire dal Sud. Stiamo ripartendo bene, chiudendo le fabbriche”.
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