Mauro voleva aprire una bottega e diventare un falegname. Di quel sogno, oggi, restano minuscoli oggetti realizzati con i rami che trova a terra: li lascia sulle panchine dei parchi, sperando che qualche bimbo li trovi e ci possa giocare. Il suo di figlio ormai è grande: è sposato ed ha due bambini, ha una casa popolare piccola ma accogliente in un’altra città. E no, non sa che il padre dorme per strada. «È troppo umiliante e non voglio che si debba fare carico di me, perché già fa fatica ad arrivare alla fine del mese», racconta Mauro risoluto. Così segue lo stesso canovaccio ogni volta che può: «Quando riesco a racimolare qualche soldo, farmi la doccia, radermi e trovare dei vestiti puliti mi metto in viaggio e vado io a trovare loro. Sanno che di soldi non ce ne sono, ma capita che nelle isole ecologiche io riesca a trovare qualche giocattolo ben tenuto, quasi nuovo, e che arrivi a presentarmi alla loro porta con un regalo. Nelle settimane buone anche con un dolce, del supermercato s’intende».
Mauro ha 58 anni ed è un senzatetto. Sta a Milano, dorme perlopiù sotto i cavalcavia di Porta Garibaldi, uno scorcio di mondo a parte, fatto di case itineranti improvvisate su carrelli della spesa azzoppati, vecchie poltrone scuoiate da unghie di gatti, coperte scartate da chi ha potuto comprarsene di nuove, avanzi di scatolette, enormi bidoni in latta in cui improvvisare un fuoco di fortuna per scaldarsi quando il freddo non si placa.
Come lui, a vagare per le strade d’Italia, c’è mezzo milione di persone. O, almeno, tante sono quelle tracciate dall’ultimo censimento della popolazione e delle abitazioni firmato dall’Istat. Nello studio si chiamano “popolazioni speciali”: «Esse – si legge nella nota dell’Istituto nazionale di statistica – rappresentano un universo variegato e di difficile intercettazione sul territorio nell’ambito della rilevazione censuaria che ha richiesto un importante cambio di paradigma metodologico». In tutte le rilevazioni precedenti i senza fissa dimora e i senzatetto erano rintracciati con tecnica “point in time”: in una notte si appuntava il quadro della situazione nei grandi Comuni con l’obiettivo di individuarne il maggior numero possibile. Per l’ultimo studio, invece, sono stati utilizzati come fonte i registri che racchiudono le informazioni anagrafiche. Epilogo: in dieci anni, i numeri certificano che i senzatetto sono quadruplicati, passando da 125mila a mezzo milione. Persone senza fissa dimora o che vivono nei campi attrezzati, negli insediamenti “tollerati” o spontanei. Persone come Mauro.
«Ho lavorato sempre, finché non mi hanno licenziato perché la fabbrica ha dovuto ridimensionare il personale. Quando mi hanno messo in cassa integrazione avevo 56 anni e ho tentato di accedere alle liste per le case popolari, perché sapevo che difficilmente avrei potuto trovare un impiego fisso. Ma niente, zero. Non ce ne sono più di case popolari, adesso va di moda l’housing sociale: peccato che quel tipo di affitto io non me lo potevo permettere. Ho svolto lavoretti qua e là: pulizie, servizio ai tavoli finché ho avuto la casa, ma poi nessuno vuole assumere un clochard. Ti vedono trasandato, a volte un poco sporco, magari ti hanno pure visto chiedere l’elemosina per strada e pensano subito a scacciarti. È un circolo vizioso. E devi ingoiare pezzo dopo pezzo la tua vergogna».
Quella di Porta Garibaldi somiglia per certi versi a una comunità, un villaggio. Il villaggio degli ultimi della terra. Ad abitarci sono le persone che non esistono, per lo più single, che respirano disperazione. È democratica, la disperazione: attraversa ogni etnia ed ogni fascia d’età (dai 50enni senza lavoro, come Giancarlo che con un vinaccio da un euro tra le mani e la bocca cerca di fare divertire gli altri quando li vede cedere alla malinconia, ai 24enni come Rashid, partito dal Benin, approdato a Brescia dopo un viaggio lungo sei mesi di speranza e ora finito a Milano in cerca di fortuna). Persone incastrate in un limbo burocratico che tentano – di giorno in giorno – di non farlo diventare anche un limbo umano, di non perdersi, di non farsi scivolare la dignità.
«Quasi tutti ci vergogniamo ad abitare qui e speriamo che questi sottopassi e queste panchine siano solo un posto di passaggio, da cui poter ripartire. Ma ci viviamo perché l’alternativa non esiste». Il problema si chiama casa. Senza un alloggio, senza una residenza, non c’è nessun contratto di lavoro, non c’è tessera sanitaria, non c’è neppure la possibilità di mettersi in fila per un posto negli alloggi popolari, perché «se non hai almeno un dormitorio il risultato è nessun punteggio per la graduatoria», racconta Mauro. Senza casa in Italia non esisti. E allora la strada, le tettoie, i sottopassi, le panchine sbiadite, il cemento rovente nell’estate della siccità diventano «l’unica risposta possibile ad un’emergenza abitativa che non ha fine. Gli sfratti e la perdita del lavoro portano a questo: alla disperazione e al limbo burocratico». Alcuni dei senzatetto di Porta Garibaldi hanno la “residenza” in via Sante Marie del Mare (la legge lo impone, c’è una via Sante Marie del Mare in pressoché ogni città): un luogo senza civici e senza edificazioni, ma che all’anagrafe è casa proprio di chi una dimora non ce l’ha, «come noi, che non siamo catalogati da nessuna parte». Come Mauro, che tiene legati al petto, sotto la maglietta, i risparmi per potersi concedere il prossimo viaggio verso quella famiglia a cui non ha il coraggio di dire che «tra le cronache dei tg, un giorno, potrei esserci anche io».
Della sua storia, del suo mondo, Mauro ne parla con uno sguardo intermittente, si scusa: «A volte faccio ancora fatica a credere che questa giornata sia davvero diventata ciò che resta della mia vita. Perché quando non esisti e non stai da nessuna parte, 24 ore non sono solo una giornata: sono una vita». Il cibo, per la verità, non è un’emergenza. «In un modo o nell’altro, grazie ai pacchi Caritas, alle mense o alle associazioni qualcosa da mangiare si trova: in qualche modo su quel fronte ci si arrangia, alcuni baristi ormai mi conoscono e alla chiusura, se mi faccio trovare in zona, mi regalano ciò che resta».
In quella comunità improvvisata e incollata con la disperazione Mauro ha anche trovato qualche amico: «Con lui mi tengo in allenamento a parlare, a esercitare anche il ruolo del padre». Lui è Rashid: 29 anni, cappellino con la visiera all’indietro, bicipiti scolpiti, sorriso di chi ha tutta una vita davanti. Da costruire, prima ancora che da vivere. È fuggito dall’Africa undici anni fa, ha lasciato la sua casa e la guerra, in Benin, in cerca di una strada. «Sono passato dal Togo, poi attraverso Ghana, Burkina Faso e Niger. Ho scavalcato il deserto e sono arrivato in Libia»: lo dice tutto d’un fiato, ma gli ci sono voluti sei mesi. È il 2011, e insieme a Rashid, in Libia arriva anche la guerra. «Per tre mesi ho lavorato», ricorda, «poi è cambiato tutto.
Sono salito su un gommone e sono venuto in Italia». Un viaggio di due giorni su una di quelle carrette del mare per poi arrivare in Sicilia, appena maggiorenne. «Lì ho studiato, ho preso il diploma di terza media per stranieri e poi ho seguito una serie di corsi di formazione per trovare lavoro». Sorride, quando ci pensa. Sogna di fare il metalmeccanico o l’idraulico.
Mauro sospira: per comprare il biglietto e raggiungere i palazzoni in cui abitano figlio, nuora e nipoti gli mancano ancora 4 euro. Perché nessuno sceglie di andare almeno in dormitorio? La domanda fa scattare in piedi Marika, milanese, per la strada si nasconde dal marito violento e ora ogni uomo che non conosce la terrorizza. «Ci sono andata io nei dormitori. Ma non sai dove e con chi capiti, i servizi sono appaltati dal Comune alle cooperative e non c’è sicurezza, nessuno controlla, nessuno interviene se capita qualcosa a noi. Una volta mi sono fatta i bisogni nelle mutande pur di evitare di andare in bagno e di subire molestie, come mi era già capitato. Per non parlare delle condizioni igienico-sanitarie e dei furti fra poveri: molto meglio la strada, molto meglio qui. Qui i visi dopo un po’ li riconosci fino a conoscere le persone e la loro storia. Che in fondo diamo tanto fastidio da fare girare tutti dall’altra parte, sdegnati, ma siamo persone anche noi».
Si chiamano Pietro e Filippo i nipoti di Mauro: il primogenito ha sei anni, il più piccolo tre. Sua nuora, Ilaria, sono praticamente due anni che prova a iscriverlo al nido ma non c’è posto, così le sue giornate trascorrono prendendosi cura di lui finché il grande è a scuola e poi si occupa della casa e di intrattenere i piccoli come può. Perché di soldi per le attività extrascolastiche – dagli sport alla musica – non ce ne sono. Suo marito, il figlio di Mauro, fa il muratore in nero e riesce a portare nel portafoglio famigliare più o meno settecento euro al mese. Arrivano a 1.100 con gli assegni familiari e qualche altro lavoretto di fortuna. Tolti quelli per l’affitto, per le bollette, per la spesa, per l’assicurazione dell’auto e la benzina, alla fine del mese di soldi da spendere non ne restano. «La vedo Ilaria che è stanca. È stanca di dover ripetere sempre ai bambini che no, anche questa cosa loro non la possono fare. E non si tratta di chissà che sfarzo: a volte è soltanto un gelato. Per questo evita spesso di portarli fuori: è stancante ricordarsi ogni volta che le privazioni non le stai vivendo tu e basta, ma le stai facendo vivere ai tuoi figli».
Fino allo scorso anno, prima che suo marito Andrea perdesse metà dei lavori saltuari, il welfare di casa si sosteneva per buona parte grazie alla madre di Ilaria. Almeno due volte alla settimana bussava alla porta di casa, incedendo al nono piano dei palazzoni popolari che hanno sistematicamente gli ascensori rotti o bloccati: dopo essere andata a fare un po’ di spesa, lasciava la frutta, un po’ di carne e quando poteva la barretta di cioccolata per i bambini oppure un pacco di brioches. Di tanto in tanto, lasciava scivolare nei sacchetti pure qualche pezzo da venti o da cinquanta, piccoli tesoretti della pensione di cui si privava. La nonna però è morta l’anno scorso «e l’ultima volta che li ho visti, Ilaria se ne stava in cucina, davanti alla finestra, a fare i conti. Era il 13 del mese e le restavano 320 euro in tutto: le bollette sono aumentate, il canone d’affitto dell’Aler è rimasto però lo stesso di sempre. Volevo dirglielo, quella sera, che ero senza casa: era tutta la settimana che ci pensavo ed ero andato proprio pensando che fosse arrivato il momento. Ma poi l’ho osservata, in silenzio. E ho pensato che se ho resistito finora, posso continuare a farlo: mi voglio poter guardare a testa alta allo specchio, io» confida Mauro a TPI.
L’ultima volta che suo figlio Andrea e Ilaria hanno fatto un viaggio è stato undici anni fa: tre giorni in viaggio di nozze in Trentino. Poi niente più vacanze, qualche giorno d’estate al lago o qualche scampagnata in montagna, partendo la mattina e tornando la sera. «Il futuro per loro è rappresentato dal sogno di portare i bambini al mare in vacanza d’estate come tutti gli altri» e magari, un giorno, avere uno scampolo di terra da coltivare insieme ai bambini. «Io lo ripeto sempre a tutti e due: da lì se ne devono andare, perché quel posto non è per i bambini. Però è sempre una casa, quella che io non ho».
In base all’ultima indagine di Federcasa e Nomisma, a causa della pandemia e dei conseguenti divieti, una famiglia su quattro ha difficoltà a pagare l’affitto e il 40 per centro prevede di non riuscire a pagarlo entro la fine di quest’anno. A soffrire sono anche le famiglie con un mutuo, che hanno generato un ammontare di crediti deteriorati in pancia alle banche pari a 15,6 miliardi di euro: sono 100mila i nuclei che rischiano di diventare inadempienti e 160mila quelli che già oggi hanno la propria casa pignorata.
Complessivamente l’emergenza abitativa riguarda 1,8 milioni di famiglie, vale a dire una ogni cinque. Quelle che vivono in una residenza pubblica sono 900mila, mentre quelle in graduatoria – e quindi in attesa – sono 600mila. Un’emergenza di cui occuparsi subito, tra i primi punti all’ordine del giorno dell’agenda di governo, si potrebbe pensare. E invece per l’emergenza abitativa, in Italia, nel Pnrr sono previsti solo 9 miliardi di euro.
È anche per questo, per questi numeri, che alla parola “politica” a Mauro si irrigidisce il volto. «La politica dovrebbe dare modo a una donna come Ilaria di portare i bambini a fare una passeggiata e comprare loro un gelato. La politica dovrebbe darmi l’opportunità di avere un tetto sotto il quale poter ospitare i miei nipoti, dovrebbe tirarmi un salvagente cosicché possa poi ripagarla per questo aiuto e consentirlo ad altri dopo di me, non dovrebbe fingere semplicemente che io non esista. Invece oggi mi obbliga a dire a mio figlio, a mia nuora e ai miei nipoti un mucchio di bugie, obbliga loro a dire ai piccoli, sempre, che mamma e papà non si possono permettere il gelato, la festa di compleanno con gli amici, un giorno in piscina.
a politica, e intendo tutta la politica, dai poveri va solo a fare le fotografie quando serve per farsi pubblicità e nei quartieri popolari mette piede per fare le sfilate, a ridosso delle elezioni. La politica crede che siccome non abbiamo nulla, allora non capiamo. Ma nessuno parla con noi. Parlano spesso di noi, quando serve a loro. Parlano di come siamo poco turistici da vedere, di come creiamo degrado, dello stato dei palazzoni dell’Aler. Basta». La politica, per Mauro, parla molto di “cose” (palazzi, strade, decoro) e poco di e con le persone.
I giornali, ogni volta che può, Mauro li legge: spesso sono i baristi a lasciarglieli, a fine giornata. «Mi voglio tenere informato, ci vivo anche io qui». E ci sono alcune notizie che, più di altre, lo fanno andare su tutte le furie. A Napoli da dieci anni non viene fatto un bando dedicato all’Edilizia residenziale pubblica per l’assegnazione degli alloggi dell’Aler: l’Amministrazione comunale ha circa 10mila richieste di regolarizzazione di case occupate, ma non riesce a quantificare i cittadini in difficoltà. Nel 2021 ci sono state 10mila richieste di aiuto a pagare l’affitto: negli anni precedenti la media viaggiava attorno alle 1.800.
Quando poi ha saputo di quelle “case popolari in più” ha accartocciato la fronte ed è rimasto immobile per dieci minuti. Gli è rimasta talmente impressa questa decisione da non riuscire a smaltire la rabbia. Regione Lombardia, voce e volto sono quelli della vicepresidente, nonché assessore al Welfare, Letizia Moratti, che annuncia l’apertura di un nuovo bando per assumere medici di medicina generale, alias: medici di base. E fin qui, tutto bene: anzi, sacrosanto. Ma poi si scopre che ci sono degli alloggi popolari in più vuoti. E che saranno sistemati per metterli a disposizione come benefit per i medici stessi. «Il bando lo apriremo il 15 giugno e si chiuderà il 15 luglio: è per il reperimento di novecento medici di medicina generale in Lombardia. Per la prima volta è destinato anche a dottori che possono arrivare anche da fuori Regione e ai nuovi diplomati. Ci sono anche facilitazioni che sono previste», dice Moratti, «come, per esempio, una cinquantina di case dell’Aler che sono date ai medici di medicina generale. Stiamo lavorando per aumentarle in tutte le province».
Mauro prende i suoi 58 anni di vita compressi nello zainetto, lascia il giornale e va a sedersi su una panchina: estrae i pochi oggetti che ha, sospirando. Magari, riordinandoli, quel peso sullo stomaco si alleggerisce un po’ e distraendosi le lacrime resteranno cristallizzate dentro gli occhi, senza bagnare le guance. «Fatto: posso ripartire, è l’ora del supermercato: qualcuno a volte mi lascia l’euro del carrello». Zainetto, una stropicciata al viso, un sorriso e riparte. In attesa di poter fare il prossimo viaggio verso la famiglia. Ma, soprattutto, in attesa di essere visto. Prima o poi.