Le denunce delle molestie subìte in ateneo riemergono dall’ombra e vengono affisse agli alberi dell’università di Torino. «Un professore mi ha accarezzato la gamba per complimentarsi con me durante un consiglio di dipartimento», oppure: «Un mio compagno mi ha toccato più volte senza il mio permesso mentre studiavamo», e ancora: «All’epoca ero dottoranda, era luglio, ero a una conferenza organizzata dal dipartimento nel cortile del rettorato. Un ricercatore che lavorava a filosofia, mi disse: “Come puoi pretendere che la gente ascolti la conferenza se sei così scosciata?”».
“Mai più zitte”
Dalle carezze indesiderate dei professori, alle molestie verbali dei bibliotecari, alle discriminazioni subite dalle dottorande per essere donna, fino ad abusi perpetrati dai compagni di studio ed avance durante gli esperimenti di laboratorio: le studentesse universitarie, professoresse, ricercatrici e bibliotecarie hanno deciso di denunciare la violenza sistemica che si vive nell’ateneo di Torino, unite nella rete “Mai più zitte”. Si tratta di un centinaio di donne e soggettività non maschili dell’ateneo, raggruppate in un collettivo nato all’indomani del femminicidio di Giulia Cecchettin. Molte di loro erano tra il mezzo milione di persone che hanno partecipato alla manifestazione nazionale dello scorso 25 novembre a Roma, declinando poi nei loro atenei l’impegno contro la violenza. Da qui, l’onda del Me Too nelle università che è partita da Torino e che sta travolgendo tutti gli atenei italiani, da Firenze, a Padova fino a Roma.
«Siamo nate in risposta alla necessità di denunciare la violenza sistemica ed istituzionale che c’era in ateneo», ci spiega Penelope, attivista della Rete “Mai Più Zitte”. «Adesso stiamo lavorando per coinvolgere tutte le componenti del mondo universitario dalle docenti, alle ricercatrici ma anche le bibliotecarie e le persone che si occupano delle pulizie e della portineria: lavoratrici esternalizzate che vivono in una grande precarietà».
La rete “Mai Più Zitte” ha raccolto le denunce delle molestie attraverso un questionario messo in rete nel mese di dicembre, poi condiviso online o attraverso degli adesivi con QR code. In poche settimane hanno raccolto 120 testimonianze anonime da diverse facoltà che raccontano molestie verbali e fisiche, l’80 per cento delle quali non era mai stata raccontata.
Specchio della società
A partire dalle storie con maggior risonanza avvenute nei dipartimenti di Filosofia e Medicina, da cui sono poi partite le prime denunce, come questa: «Un ricercatore che lavorava a filosofia, G., mi spiegò che non sono adatta alla carriera accademica perché prima o poi sentirai il bisogno di fare figli. I. S., ordinario di Filosofia, abitualmente chiede ai suoi post doc se vanno a puttane. P., ex ordinario di Filosofia, mi ha fissato le gambe per tutta la durata dell’esame. Alcuni colleghi maschi spesso mi hanno trattata come una segretaria, chiedendomi di ricordare loro gli appuntamenti e di gestire la parte burocratica dei corsi in comune».
«L’università è lo specchio della nostra società patriarcale», ci spiega Beatrice della Rete “Mai Più Zitte”. «Cosa intendiamo per molestia? Possono essere fisiche, verbali, umiliazioni, commenti che vengono fatti da docenti che detengono una situazione di potere in ateneo, ma anche, in misura minore, da colleghi e da compagni di corso».
E alcune di queste testimonianze anonime sono state rese pubbliche dalle attiviste: stampate e affisse agli alberi dell’università dopo aver interrotto la seduta del senato universitario per protestare contro le molestie.
«L’università ci dovrebbe ascoltare, invece le nostre parole sono costantemente messe in dubbio da chi ricopre posizioni di potere in ateneo», continua Beatrice. «Il rettore non ci ha mai considerate, i docenti si spalleggiano dicendo che si tratta di casi isolati, invece di riconoscere che è un problema sistemico e offrire formazione ai docenti soprattutto su cosa sia un rapporto di potere e come gestirlo».
La logica della prevaricazione
Antesignano dell’esperienza della Rete “Mai Più Zitte” è stato un gruppo di dottorande della facoltà di Filosofia dell’Ateneo Torinese, poi confluite all’interno della rete di attiviste.
Proprio l’8 marzo dello scorso anno circa venti tra studentesse, ricercatrici e dottorande, inviarono una lettera alla sezione di filosofia del dipartimento per mettere in luce il clima di violenza fisica, verbale e psicologica che si vive nella facoltà. Un ambiente discriminatorio che è stato confermato anche dalla sospensione di un docente del dipartimento di Filosofia dell’Università di Torino, nel febbraio 2024. Il provvedimento è arrivato dopo che alcune studentesse avevano denunciato comportamenti abusanti.
«La lettera ha suscitato varie reazioni immediate, ma l’ateneo non ha mai risposto», ci spiega una delle firmatarie. «L’interesse è stato quello di lavorare su alcuni casi specifici, ma non si è riconosciuto il problema a livello sistemico».
«Nella nostra facoltà c’è ancora una forte subalternità, anche a livello numerico», continua la dottoranda. «Se le ricercatrici sono più o meno lo stesso numero dei colleghi maschi, lo stesso non vale per chi ha assegni di ricerca, né tantomeno per i docenti, che sono ancora in maggioranza uomini. Questo diventa evidente anche durante incontri, seminari. Da qui la difficoltà di prendere la parola, il mansplaining, la reticenza ad utilizzare un linguaggio inclusivo. Visto che questo è il quadro non ci si deve sorprendere se anche la violenza fisica può legittimarsi».
Un problema che viene da lontano. «A filosofia si ignora il pensiero non maschile. Nonostante siano esistite filosofe e pensatrici ben prima del Novecento, le loro opere e i loro nomi vengono oscurati e dimenticati. Con questo non intendiamo dire che si debba smettere di studiare Kant o Platone, ma vogliamo mettere in rilievo come da un certo stile di pensiero dipendano anche una logica e una cultura della prevaricazione. Per questo rivendichiamo dei programmi più estesi e inclusivi».
L’onda lunga della denuncia
Dalla facoltà di filosofia di Torino, e in particolare dal lavoro della rete “Mai Più Zitte”, l’onda lunga delle denunce delle molestie è stata ripresa a livello nazionale dall’Unione degli Universitari (Udu), principale sindacato studentesco italiano.
L’Udu ha fornito a TPI in anteprima il report “La tua voce conta” che racconta i risultati dell’inchiesta resa pubblica l’8 marzo e che ha raccolto, nelle prime 24 ore di lancio, oltre 500 testimonianze. Tra i tanti dati emerge che il 34,5 per cento delle persone ha sentito parlare di casi di molestia o violenza all’interno degli spazi universitari e secondo il 47,4 per cento il territorio in cui studia non è per niente o abbastanza attrezzato a ricevere e gestire segnalazioni di violenza o molestia. Il 25,7 per cento delle testimonianze riporta l’esistenza di centri antiviolenza dentro il proprio ateneo che solo nell’8 per cento dei casi offrono assistenza sia psicologica che legale e nei quali vengono segnalati disservizi come personale non competente e tempi di attesa troppo lunghi.
«Ad oggi abbiamo raggiunto le 1.500 testimonianze, dove appare che le figure maggiormente problematiche sono i docenti e il personale universitario, poi compagni di corso; invece sono considerati come luoghi più pericolosi gli studentati, gli uffici dei docenti, le aule senza lezioni. Emerge anche la scarsa conoscenza dei servizi del territorio e dei centri antiviolenza, il 62,1 per cento infatti non conosce i servizi offerti nelle università. In alcune testimonianze si racconta che dopo la denuncia, il rettore e i consiglieri di garanzia abbiano totalmente ignorato il caso o chiesto un faccia a faccia con l’abusante», spiega Camilla Piredda, 25 anni, coordinatrice di Udu nazionale, che studia sociologia a Bologna.
«L’8 marzo presentiamo una prima analisi dei nostri questionari alla Camera dei Deputati. Vogliamo tenere aperta l’indagine fino al prossimo 25 novembre per raccogliere più risposte possibili e costruire una proposta di legge nelle università che renda obbligatoria la figura della consigliera di garanzia e che obblighi a un collegamento diretto tra i centri antiviolenza e atenei».
Storie di molestie
Le denunce raccolte dall’Udu raccontano vari episodi vissuti da studentesse molestate da docenti: «Con quel visino può fare la escort, ci pensi. Guadagnerebbe anche bene», «Sono stata più volte toccata dal mio relatore di tesi durante le correzioni del testo», e anche «Il prof […] mi fa i complimenti dicendomi: “Si vede che sei brava a tenere in mano i cazz*, quanti ne hai presi, sembri esperta. Rispondo che è fuori luogo, ribatte dicendomi che sarebbe stato più opportuno parlarne a pranzo e mi invita a pranzare con lui. Rifiuto e lui sottolinea: “Guarda che pago io”».
Ci sono anche storie che coinvolgono personale non docente come: «Un ragazzo appartenente al personale della ditta di pulizie ha molestato fisicamente una conoscente, chiudendola in una stanza isolata e tentando di immobilizzarla e palpeggiarla». Altre risalgono addirittura agli anni ‘80: «Le mie risposte si riferiscono agli anni 1986-88, quando frequentavo il reparto di Medicina come tirocinante per compilare la tesi. L’allora Aiuto del Primario mi faceva pressioni per ottenere prestazioni sessuali. Una volta laureata, decisi di uscire dalla Clinica, non fare domanda di specialità, non avrei retto altri 4 anni di stress, e se non l’avessi accontentato non mi avrebbe permesso di imparare nulla. Scelsi di sacrificare i miei ideali. Cambiai strada. Senza dire nulla a nessuno! Non erano i tempi del “Me too”».
Testimonianze che non si discostano da quelle raccolte dalla rete “Mai Più Zitte”, che hanno dato il passo alle mobilitazioni nazionali. «Quello che è successo a Torino è avvenuto tante volte in passato. Negli atenei sento tanta omertà e voglia di proteggersi, è complicato fare uscire pubblicamente le notizie», continua Piredda. «Quando facevo il secondo anno di università e studiavo a Forlì avevamo già denunciato molestie in ateneo, senza ricevere attenzioni. Cosa è cambiato? Elena Cecchettin ha fatto la differenza, ha portato in uno spazio pubblico le rivendicazioni e la denuncia del problema sistemico della violenza di genere in ogni ambito. Nelle organizzazioni studentesche vedo una sensibilità rinnovata, che si sta espandendo a tutte le componenti».
Consigliera di fiducia
Infatti, il Me Too delle università sta travolgendo tutta Italia, con iniziative simili che coinvolgono gli atenei di Roma Tre, Firenze, Pisa, tra gli altri. A Firenze è stata creata nel 2018 l’iniziativa “Sarà Sicura”, per educare alla sessualità e affettività, e offrire sportelli di ascolto per le molestie. Anche in questo caso sono state raccolte segnalazioni di illazioni, avance e discriminazioni, confluite nel report nazionale dell’Udu. Il femminicidio Cecchettin è stata una spinta ulteriore per rilanciare il lavoro, come racconta una studentessa del collettivo: «La storia di Giulia Cecchettin ci ha colpito profondamente, faceva la nostra vita da universitaria, prima ci ha portato in piazza e ora ci spinge a rilanciare la lotta contro le molestie».
In 13 atenei italiani esiste la “Consigliera di fiducia”, una figura professionale che ha il compito di raccogliere le segnalazioni di molestie, discriminazioni e mobbing e tutelare tutte le persone che vi si rivolgono. All’Università Sapienza di Roma, nel corso del 2023, sono state 13 le persone che si sono rivolte alla Consigliera per denunciare casi di abusi di genere avvenuti tra le mura dell’Ateneo.
Rivolgersi alla consigliera di fiducia è soltanto uno degli strumenti di ascolto attivi. Sono una quindicina oggi gli sportelli antiviolenza di genere attivi nei campus universitari, ancora troppo pochi a livello nazionale secondo le attiviste. Il primo è stato aperto a Torino nel 2019. «La nostra attività di ascolto è aperta a tutte, con un’attenzione particolare al mondo universitario», ci spiega Silvia Sinopoli, avvocata, vicepresidente e coordinatrice dei Centri Antiviolenza gestiti dalle operatrici di E.M.M.A. Onlus. «Ci occupiamo di ogni forma di violenza, da quelle domestiche, alla dimensione di coppia, fino a quelle più legate all’università, come il mobbing o la discriminazione».
Nel 2023 sono state 43 le donne che hanno chiesto aiuto, per la prima volta, allo sportello. Di queste 28 sono state inserite in percorsi ad hoc per la fuoriuscita dalla violenza. Gli accessi e le richieste di supporto sono aumentate del 30 per cento rispetto all’anno precedente. «Avere un luogo di incontro e ascolto all’interno del campus serve anche per sottolineare come l’università non sia immune alle dinamiche patriarcali e che la violenza riguardi tutti e tutte», continua Sinopoli. «Un luogo fisico aiuta perché è importante incontrarsi, stabilire una relazione che si basa sulla fiducia. difficile da mantenere in piedi con le denunce anonime».
Un percorso ancora lungo
Dai movimenti studenteschi alle iniziative più istituzionali, il mondo universitario è attivo sul fronte della violenza di genere, in particolare su quella che si svolge al proprio interno. «L’università è un luogo in cui ancora esistono asimmetrie di potere ed è stato a lungo a maggioranza e dominanza maschile», ci racconta Cristina Demaria, docente di semiotica e delegata del rettore dell’Università di Bologna per equità, inclusione e diversità. «Ora qualcosa sta cambiando. Le giovani generazioni sono diverse, in qualche modo più consapevoli. Se qualche anno fa nessuno metteva in dubbio il potere dei “vecchi baroni”, oggi c’è un’attenzione maggiore. Si sta iniziando a diffondere l’idea che l’Università deve essere uno spazio sicuro e che la violenza, anche verbale o psicologica, non può essere tollerata».
Un percorso ancora lungo, ma che comincia a dare qualche frutto. «Da qualche tempo pare che l’Università non si vergogni più, ma anzi cerchi di portare a galla la violenza, per lavorarci», prosegue Cristina Demaria. «A Bologna abbiamo lo sportello antiviolenza, la consigliera di fiducia e siamo attivi o su più fronti. A breve, ad esempio, partirà un ciclo di incontri sulla maschilità. Credo che proprio l’Università abbia il compito di lavorare a fondo su quella trasformazione culturale che è necessaria per prevenire la violenza».
Qualcosa si muove, ma la lotta partita da Torino è ancora lunga. «È chiaro che non esiste ad oggi una risposta sistemica al problema», conclude Beatrice di “Mai Più Zitte”. «Un primo passo sarebbe quello di lasciare spazio al dissenso, all’auto-organizzazione dal basso, all’investimento sulla formazione ai docenti, fondamentale per mettersi in discussione». L’8 marzo, l’onda lunga della lotta alle molestie universitarie, è pronta a diventare marea.
Leggi l'articolo originale su TPI.it