Matteo Gorelli ha 30 anni ed è nato a Firenze. A 19 anni ha commesso un omicidio ed è stato condannato all’ergastolo. Quando ha fatto ingresso per la prima volta nel carcere di Grosseto, prima tappa del percorso che lo ha portato a San Vittore e poi a Bollate, a Milano, non era neanche diplomato. Oggi in tasca ha una laurea in pedagogia e grazie ai permessi speciali ha iniziato a lavorare come educatore in una comunità. Ma soprattutto è diventato uno dei fondatori, insieme all’artista Patrick Yassine e al giovane manager Antonio Bongi, di un’etichetta discografica indipendente che produce artisti di trap, drill e hip hop della periferia milanese. Si chiama Attitude Recordsz, un nome che per Matteo e gli altri ha un significato preciso: “Stare al mondo con le palle“, dice a Tpi.
“Stare al mondo con le palle” significa non allontanarsi dall’humus sociale che dà origine ai generi musicali urban e dal racconto a volte aggressivo di situazioni estreme, ma allo stesso tempo aiutare chi vive in quei contesti disagiati, cercando di non scadere nella retorica della subcultura periferica. E in quella della “storia di successo” del carcerato che “ce la fa”. Per Matteo l’aspetto più importante e positivo della sua storia è stato realizzare un’impresa collettiva insieme a un gruppo di persone con cui condivideva esperienze traumatiche e aspirazioni. “Grazie alla musica stiamo creando un gruppo di gente che si vuole bene e tenta di darsi una mano per uscire da situazioni difficili, perché ci supportiamo a vicenda. Un’impresa collettiva così come facevano negli anni 80 determinate minoranze”, spiega.
Ora a Matteo restano ancora pochi anni da scontare, perché la sua pena nel frattempo è stata ridotta, e vive in condizione di semi-libertà. Ma la libertà ha iniziato a conquistarla prima, studiando, e scrivendo una tesi di laurea sulle cooperative sociali che nascono in carcere. Quando ha incontrato le persone giuste il lavoro accademico è diventato realtà. “Ho conosciuto due anni e mezzo fa Yassine e Bongi a un evento di free style. Bongi ha un passato più simile al mio. Yassin ha vissuto la periferia ma non ha mai fatto le scelte sbagliate che abbiamo fatto noi”, racconta a Tpi. “Abbiamo iniziato a progettare uno studio che fosse inclusivo, un’etichetta discografica per il quartiere. Ho portato le mie competenze da educatore e pedagogista”, racconta. Dopo aver vinto un bando del Comune, insieme hanno iniziato a intercettare una sessantina di artisti da produrre nel quartiere di San Siro. Ora vogliono espandersi in quello di Corvetto. Ma Matteo pensa in grande e in futuro vorrebbe creare nuovi progetti collegati all’impresa e alla musica. Quella che più gli piace e che parla di disagio “anche in maniera aggressiva”, perché pensa sia “la terapia migliore” per gli stessi artisti che la creano.
Tra i musicisti che Matteo ha conosciuto e formato c’è Simba La Rue, il rapper milanese di origini francesi e tunisine accoltellato in via Aldo Moro a Treviolo (Bergamo) a metà giugno. “È il mio preferito – dice – le sue tracce vanno ascoltate senza pregiudizi, bisogna ascoltarlo come si ascolta qualsiasi tipo di arte perché ha linee di profondità e narrazione collettiva rispetto a determinate situazioni. Questi artisti stanno facendo un’opera di liberazione di massa, ma non è detto che questo sia necessariamente percepito”, afferma. Ai rapper come La Rue s’ispirano migliaia di giovani italiani che vivono in contesti difficili, perché appartengono a seconde generazioni di migranti spesso ghettizzate, che secondo Matteo “stanno liberando la voce di chi non ha voce”. “Gli oppressi, chi vive in un monolocale dove non va la stufa, in case occupate. Loro hanno inventato dal niente in Italia la possibilità di farci entrare in questa periferie estrema raccontandola e hanno il mio affetto. Che poi si stiano rincoglionendo perché vittime del proprio personaggio è veramente spiacevole”.
Gorelli crede che i rapper prendano una deriva violenta quando diventano vittime dell’immaginario costruito intorno al loro ruolo, che influenza le nuove generazioni se non viene proposta loro un’alternativa. Quella che, in un certo senso, sta cercando di offrire lui con la sua etichetta “sia nella narrazione che nel comportamento“. “Certe cose che hanno una matrice di violenza non le accettiamo. Io sono un educatore e ci sono collaboratori che non hanno mai avuto background di vita di strada. Ci piace raccontarla perché è un modo per far esprimere le persone ed esprimerci noi, incontrare nuovi mondi, anche perché la periferia deve incontrare altre situazioni per uscire dalla marginalità”, spiega. Cresciuto nelle province toscane e in una terra, la val d’Elsa, “dilaniata dall’eroina”, Matteo ha avuto un’infanzia un po’ diversa da quella dei rapper che ha formato e che produce. “I miei traumi sono rimandabili alla mia famiglia, sono traumi psicologici – racconta – dove sono cresciuto c’è poco da fare e in adolescenza si usa molta droga, ma non sono luoghi così poveri. Sono poveri di occasioni, di attività culturali. L’unica cultura che c’è è quella dello sballo”.
L’impresa che ha fondato lo aiuta a dare un senso al suo presente e al suo futuro, una storia che è diventata il soggetto del documentario “Attitude”, prodotto da Naive TV e diretto da Tommaso Frangini, che insieme a Matteo ha interpretato il lavoro di regia “come un’interazione sociale”. Ma la sua esperienza è un’eccezione. Perché non tutti i detenuti, compresi i più giovani, sono così determinati da riuscire a continuare a studiare, soprattutto in un Paese che investe solo il 2 per cento delle risorse nell’istruzione dei carcerati. “Devi avere una forza di volontà per qualunque cosa. Anche per andare in bagno serve chiedere a qualcuno. Chi non ha capitale sociale muore”. A Matteo il carcere è entrato così tanto dentro che quando legge la parola “cercare” ci legge “carcere”, racconta nel documentario. Ma, a furia di cercare, è uscito dal carcere.