Dopo il nostro reportage sulla guerra del Caquetá, la regione colombiana in cui Mario Paciolla lavorava con la Missione di Verifica ONU, affiorano nuovi e allarmanti dubbi sulla morte del funzionario italiano. A sollevarli è ancora una volta la giornalista Claudia Julieta Duque, sul quotidiano colombiano El Espectador. Tra gli elementi emersi, uno di essi sembra determinante nella ricostruzione dei fatti: l’ultima telefonata di Paciolla agli organismi di sicurezza dell’ONU, realizzata la sera prima del ritrovamento del corpo senza vita. Dopodiché, rimane il silenzio assordante delle Nazioni Unite, accompagnato dall’inquietante tentativo di disperdere tutto ciò che si trovava in casa di Paciolla, e che avrebbe potuto ricondurre alle cause della morte. Ma procediamo con ordine.
Claudia Julieta Duque era una delle poche persone cui Paciolla riferiva le novità e le problematiche della Missione di Verifica nel Caquetá. I membri delle missioni ONU hanno l’obbligo di mantenere il silenzio sulle loro attività nel territorio, almeno fino alla pubblicazione delle relazioni finali. Ma Claudia era un’amica fidata, conosciuta nel 2016, quando Mario si era trasferito in Colombia per unirsi alle PBI (Peace Brigades International): un’organizzazione non governativa che si occupa di offrire protezione ai difensori dei diritti umani che soffrono minacce e aggressioni. All’epoca, una delle persone tutelate dalle PBI era proprio Claudia Julieta Duque. Le sue inchieste sulle relazioni opache tra Governo nazionale e gruppi paramilitari le erano costate decenni di persecuzioni e intimidazioni. Una realtà infernale che ha costretto Duque ad allontanarsi dalla Colombia in più occasioni, e ad usufruire di un servizio di scorta e della tutela delle PBI quando si trova nel Paese.
In quegli anni, Claudia Duque e Mario Paciolla consolidano un rapporto d’amicizia. Paciolla lascia le PBI nell’agosto del 2018, per unirsi alla Missione ONU di Verifica dell’Implementazione degli Accordi di pace nel Caquetá (Colombia). Il legame con Claudia Duque non si è però mai interrotto, e le informazioni raccolte dalla giornalista colombiana ci permettono oggi di avere un quadro più comprensibile delle ore immediatamente successive alla morte dell’operatore italiano, avvenuta nella notte tra il 14 e il 15 luglio in circostanze non ancora chiarite.
LA TELEFONATA DEL 14 LUGLIO E LE INCONGRUENZE NEI MOVIMENTI DELL’ONU
Di quanto accaduto nei giorni precedenti al 14 luglio sappiamo ancora troppo poco. La discussione tra Paciolla e i suoi responsabili, datata 10 luglio, e la successiva telefonata alla madre, in cui Mario riporta le sue inquietudini e la sua volontà di tornare al più presto in Italia. Emerge ora un nuovo elemento: alle 22.00 del 14 luglio Paciolla contatta telefonicamente Christian Thompson Garzón, sottufficiale dell’esercito e responsabile della Sicurezza della Missione di San Vicente del Caguán. Un profilo di altissima esperienza nella gestione dei pericoli nelle zone ad alto rischio della Colombia. Non è noto il contenuto della chiamata, ma secondo i funzionari ONU una telefonata di quel tipo, a quell’ora, è un’assoluta anomalia.
Il 16 luglio, il giorno dopo il ritrovamento del corpo, una squadra dell’Unità per le Indagini Speciali del reparto di sicurezza dell’ONU procede al sequestro di tutti gli effetti personali di Paciolla. Non sono presenti né esponenti della Procura né membri della polizia giudiziaria, come richiederebbe la prassi. Il 17 luglio gli operatori ONU restituiscono le chiavi di casa al proprietario, Diego Hernández. Hernández firma in quel momento un documento di cui non legge il contenuto, intenzionato a “voltare pagina” al più presto. Si disfà degli utensili che gli aveva prestato Mario, suo inquilino da 13 mesi, e pubblica immediatamente un annuncio di affitto dell’immobile. A soli due giorni dalla morte di Paciolla, si perde ogni possibilità di recuperare ulteriori prove dalla residenza in cui alloggiava.
Tutto il personale della Missione ONU di San Vicente del Caguán viene immediatamente trasferito a Florencia, capoluogo del Dipartimento, dove il 17 luglio viene inviato il responsabile dell’Unità Medica della Missione di Verifica, Jaime Hernán Pedraza Liévano. Il medico assiste all’autopsia grazie a un’autorizzazione concessa in maniera impropria: Pedraza viene erroneamente presentato come medico forense assegnato dall’Ambasciata Italiana in Colombia. Il 24 luglio il corpo di Paciolla viene trasportato in Italia. L’ONU invia a Roma un documento non firmato con una lista di alcuni degli effetti personali trovati nella sua residenza. Gli oggetti rimangono in Colombia, così ha deciso la Procura locale. L’avvocato Germán Romero Sánchez, specializzato nella difesa degli attivisti per i diritti umani uccisi in territorio colombiano, accusa l’ONU di aver violato il diritto alla privacy della vittima e di rallentare il corso della giustizia, in una fase cruciale per le indagini.
L’impressione di un silenziamento imposto dai vertici della Missione di Verifica ONU è confermata dalle mail ricevute dai 400 funzionari vincolati alla Missione nei giorni successivi alla morte di Paciolla. Il 16 luglio il responsabile amministrativo Eric Ball segnala a tutti i dipendenti il divieto assoluto di rilasciare interviste o pubblicare articoli relazionati con l’episodio. Tre giorni più tardi, il capo della Missione Carlos Ruíz Maisseu ribadisce la necessità di mantenere discrezione assoluta al riguardo. Contattato per un’intervista, Ruíz Maisseu sceglie di non rispondere. Tace sia sulla questione della telefonata al responsabile della sicurezza del 14 luglio che sulle operazioni dei funzionari ONU nella residenza di Paciolla.
Il 27 luglio è stata realizzata la seconda autopsia a Roma. Si attendono ancora i risultati della prima, eseguita dall’Istituto di Medicina Legale del Caquetá il 17 luglio. L’assordante silenzio dell’ONU e le profonde inquietudini espresse ‘ufficiosamente’ da diversi membri della Missione lasciano aperti tanti dubbi sull’operato dei vertici della Missione e sulla collaborazione delle Nazioni Unite in un’indagine già di per sé estremamente complessa.
LA COMMEMORAZIONE DEL 30 LUGLIO: IL RICORDO DI MARIO
Intanto, nella serata del 30 luglio la Villa Comunale di Napoli ha ospitato un commovente momento di ricordo per Mario Paciolla. Tanti gli amici, i parenti, i rappresentanti delle istituzioni e i cittadini presenti. Ancora di più le persone connesse virtualmente dalle varie regioni del mondo in cui Paciolla aveva lasciato tracce del suo operato. India, Argentina, Giordania, Colombia. Un “fabbricatore di pace”, nelle parole del senatore Sandro Ruotolo, ma anche un giornalista, poeta, attivista, fine analista politico. Una solida formazione umanistica, corroborata dalla specializzazione in relazioni internazionali. I grandi interessi per le culture asiatiche e africane, accompagnati da un incessante attività per la difesa dei popoli più vulnerabili. Con la scrittura e con il lavoro nel territorio.
Paciolla era entrato a far parte della Missione ONU nel Caquetá con un importante bagaglio di esperienze nelle zone problematiche del mondo. Nel 2012 gestiva un progetto di educazione ai diritti umani nelle villas miseria (favelas) di Salta, nelle Ande argentine. Nel 2015 l’esperienza come analista politico in Giordania per il CESIE. Nel 2016 l’ingresso nelle Peace Brigades International Colombia, con cui avrebbe collaborato per due anni. Dal 2018, quasi due anni di attività nella Missione di Verifica dell’ONU a San Vicente del Caguán. Un profilo altamente preparato, ben conscio dei fattori di rischio della regione e dei protocolli da adottare in caso di emergenze.
È proprio questo aspetto a destare più perplessità: Paciolla non era uno sprovveduto, ma un operatore ONU integro e competente, che conosceva ogni angolo di un territorio conteso da gruppi armati violenti ed organizzati. I timori espressi il 10 luglio erano necessariamente causati da una situazione di pericolo seria e imminente. E allora, perché non sono state attivate immediatamente le misure di protezione previste? La domanda non ha ancora risposte, e pone le Nazioni Unite davanti alla necessità di assumersi le proprie responsabilità, per la morte di un “fabbricatore di pace” e di un poeta.
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