C’è un vuoto investigativo – e di conoscenza storica – che pesa ancora oggi nella storia italiana. È uno snodo chiave, un crocevia dove sono si sono sfiorati, incontrati e alleati poteri criminali di peso. Apparentemente diversi, ma convergenti. Un filo che parte dall’inizio degli anni Ottanta e che si dipana fino ad un’epoca molto più recente, secondo documenti inediti che TPI ha potuto consultare, dove emissari di Cosa Nostra appaiono legati a vecchie conoscenze del mondo eversivo.
Per tracciare la rotta occorre partire da quarant’anni fa. Tommaso Buscetta, che di certe cose se ne intendeva, al giornalista brasiliano Nunzio Briguglio, interessato ad avere sulla sua opinione sulla presenza della Loggia P2 tra Rio de Janeiro e San Paolo, rispondeva «noi siamo cattivi ragazzi, ma quelli sono banditi veri».
In America Latina, in quegli ormai lontani anni Ottanta, Cosa Nostra, gruppi eversivi neofascisti e il potere del gruppo di Gelli e Ortolani convivevano. A volte negli stessi uffici nelle vie centrali delle capitali, nelle stesse banche di comodo o nei gabinetti delle giunte militari. Formavano un unico gruppo – come raccontano diversi documenti provenienti dagli archivi brasiliani e argentini – alleato con i militari del “piano Condor”, non interessato solamente alla repressione dei settori progressisti: avevano un business ben preciso, i nascenti traffici di droga e le armi.
Alcuni documenti declassificati provenienti dall’archivio nazionale del Brasile indicano anche un nome in codice, “Omega”, per indicare quel cartello composto dai capi della P2, da «milizie paramilitari di estrema destra» e dagli ufficiali golpisti.
Piano “Condor”
Dal continente latinoamericano occorre, dunque, ripartire, per provare a ricucire fili e alleanze ancora oggi in buona parte oscure. Era il 1980, l’anno della terribile strage di Bologna, di Ustica, della parabola iniziale di rafforzamento dei Corleonesi, di un’Italia ancora sconvolta dal caso Moro. Forse il momento più difficile della Repubblica.
A migliaia di chilometri di distanza un nutrito gruppo di italiani – in buona parte latitanti – si metteva al servizio di un generale boliviano: Luis García Meza Tejada. Il suo braccio destro, Luis Arce Gómez, nominato ministro dell’Interno cercava le risorse giuste da utilizzare per la repressione, feroce e senza sconti, avviata dalla giunta militare dopo il golpe del luglio 1980.
Sapeva a chi rivolgersi. A colui che si faceva chiamare Klaus Altmann Hansen: i militari lo avevano nominato capo della società di navigazione di un paese senza mare e di lui si raccontava che avesse dato i consigli giusti alle truppe boliviane per individuare e catturare Ernesto Che Guevara.
Tutti conoscevano la sua reale identità: Klaus Barbie, il boia nazista di Lione, l’ex SS torturatore e sterminatore durante l’occupazione tedesca del sud della Francia. Luis García Meza Tejada e Arce Gómez non erano militari da operetta. Noti torturatori, pienamente inseriti nella struttura riservata “Condor”, sono stati condannati in Italia per la loro ferocia nell’attuazione dei piani di sterminio dell’opposizione.
Insieme a Klaus Barbie, subito dopo il golpe, decidono di creare una struttura paramilitare come mai si era vista in tutta l’America Latina. Dall’Argentina chiamano un specialista italiano: Stefano Delle Chiaie, latitante da anni, al servizio prima di Augusto Pinochet e della polizia politica Dina, poi dell’intelligence militare dei torturatori di Buenos Aires.
Uomo in grado di sostenere doppio, triplo gioco, alla bisogna, vero esperto di guerra psicologica, neofascista – con un certo amore per il nazismo – pronto a servire il nuovo padrone a La Paz. Insieme a lui Barbie e i militari boliviani chiamano un nutrito gruppo di neonazisti doc, partiti dalla Germania anni prima, passati in Africa, soprattutto Rodesia, come mercenari, transitati nella Legione della Spagna franchista. Gente con pochissimi scrupoli, soprattutto quando si trattava di colpire i nemici giurati dell’internazionale nera.
La coca di Santa Cruz
La Bolivia era – e in buon parte ancora è – il cuore della produzione della foglia di coca, la base per la raffinazione della cocaina. Santa Cruz de la Sierra negli ultimi anni è divenuta la città boliviana crocevia del narcotraffico, dove agisce il cosiddetto “Narcosul”, denominazione dell’alleanza attiva in America Latina tra il cartello brasiliano del Primeiro Comando da Capital (Pcc) e la ‘Ndrangheta.
È l’asse che gestisce oggi buona parte dei traffici di cocaina verso l’Europa. La rotta parte dai Paesi andini, raggiunge i porti brasiliani grazie alla copertura dei narcos locali, entrando nella filiera dei container gestita dalle cosche calabresi, fino al punto di arrivo.
L’importanza strategica di Santa Cruz de la Sierra affonda le radici nell’epoca del generale Meza, quando la sua giunta militare era chiamata la «Narco-dittatura». La foglia di coca era il business che più stava a cuore a quel gruppo di generali nel lontano 1980, come hanno dimostrato i processi – in Bolivia e negli Usa – contro alcuni militari di La Paz.
Il loro golpe aveva sponsor precisi, ben noti nel panorama del narcotraffico internazionale. Il più conosciuto era Roberto Suárez Gómez, il Re della coca di Santa Cruz de la Sierra, crocevia tra l’Amazzonia e il Gran Chaco, l’area forestale che scende fino al Paraguay.
È stato uno dei principali fornitori di foglie di coca del Cartello di Medellin, la cui figura ha ispirato il personaggio Alejandro Sosa nel film “Scarface”, uscito nel 1983. Suárez aveva in mano la logistica del trasporto della della materia prima per la produzione della cocaina utilizzando una piccola flotta aerea che sorvolava l’area tra le Ande e l’Amazzonia, garantendo il rifornimento dei laboratori clandestini di Pablo Escobar.
Già mesi prima del colpo di Stato, il tedesco Joachim Fiebelkorn – uno dei mercenari neonazisti tedeschi al servizio della giunta militare – era divenuto l’uomo di fiducia di Suárez. A presentarlo al Re della Coca fu proprio Klaus Barbie, come racconta in un libro di memorie Gustavo Sanchez Salazar, ex ministro dell’Interno boliviano che – caduta la dittatura – riuscì a far estradare verso la Francia il boia di Lione.
Secondo il racconto di Sanchez, quel gruppo di estremisti neofascisti e neonazisti arrivati Bolivia per dare un supporto alla dittatura di Meza aveva avuto un ruolo ben preciso anche – e forse soprattutto – al fianco del principale fornitore di foglie di coca del Cartello di Medellin.
Stefano Delle Chiaie ha cercato diverse volte di respingere con un certo sdegno questa ombra, sostenendo di aver sempre detto ai suoi uomini di «tenersi lontani dalle foglie di coca». Diversi atti d’indagine, però, dimostrano la sua stretta vicinanza con Fiebelkorn e con lo stesso Barbie.
Di certo Stefano Delle Chiaie in Bolivia non si occupava esclusivamente di “guerra psicologica” e propaganda, come ha raccontato nei processi e alla commissione stragi nel 1987. Era il terminale di investimenti che partivano dall’Italia, attraverso la società vicina all’organizzazione Avanguardia nazionale e alla società Odal Prima, con sede a Roma.
Secondo un appunto dei servizi depositato nei fascicoli del processo Italicus bis, Delle Chiaie avrebbe acquistato un terreno di 3mila ettari. Cosa fosse coltivato in quella fazenda, però, è ancora oggi un mistero. Delle Chiaie avrebbe poi chiesto a Fiebelkorn di cedergli un ristorante “Bavaria” a Santa Cruz de la Sierra, un locale dove si riunivano i mercenari al servizio dei narcos.
L’uomo dei misteri
Sono storie antiche, queste, che ritornano vent’anni dopo, in documenti inediti – che TPI ha potuto consultare – dove si incrocia il nome di Delle Chiaie e quello di uno dei clan più potenti di Cosa Nostra. Il 19 giugno 2020 il Sisde compila una nota per i vertici dei Carabinieri, della Guardia di Finanza e del Ministero dell’Interno con oggetto «Presunte attività illecite poste in essere in Bolivia da elementi appartenenti al clan Santapaola».
La nota – declassificata in seguito alla direttiva Renzi – riporta i dati essenziali di un’inchiesta che già un anno prima aveva occupato le pagine dei principali giornali latinoamericani: «È stato riferito che un gruppo di cittadini italiani legati all’organizzazione criminale facente capo a Santapaola Benedetto, attivo in Bolivia nel traffico di sostanze stupefacenti e nel riciclaggio di denaro di provenienza illecita ha dato vita, nel Paese sudamericano, ad un efficiente sistema di tangenti per inserirsi in attività» nel settore delle telecomunicazioni.
Il documento riporta i nomi dei principali soggetti coinvolti, aggiungendo un’informazione apparentemente inaspettata: «Sarebbero in contatto con il noto estremista di destra Stefano Delle Chiaie». Il protagonista principale della trama criminale riportata dal Sisde è un nome sconosciuto ai più, ma di un peso criminale – anche attuale – notevole: Marino Marco Diodato.
Secondo il Sisde è «operante nel settore del traffico di sostanze stupefacenti e nel controllo della sale da gioco»; in Italia risultano a suo carico diversi gravi precedenti «per sequestro di persona, porto e detenzione di armi e associazione per delinquere».
L’agenzia d’intelligence, però, non aggiunge nessuna ulteriore informazione sui contatti con Delle Chiaie. Per trovarne traccia occorre tornare al 1980, quando i neofascisti italiani insieme ad un nutrito gruppo di neonazisti tedeschi viene chiamato da Klaus Barbie al servizio dei narcos boliviani e dei militari.
Secondo diverse fonti boliviane, Diodato era uno dei membri di quel gruppo. La prova starebbe in una fotografia pubblicata dal periodico boliviano Semanario Sol de Pando che raffigura Marino Diodato insieme a Joachim Fiebelkorn, posando insieme ad altri membri del gruppo Novios de la muerte, i “fidanzati della morte”. Così si facevano chiamare i paramilitari di estrema destra al servizio della dittatura boliviana.
La fotografia è sicuramente precedente il maggio 1981, quando la polizia federale brasiliana catturò parte del gruppo mentre cercava di fuggire con un piccolo aereo dopo la caduta della giunta militare di Meza. Consultando gli atti dell’arresto, disponibili nell’archivio nazionale brasiliano, il nome di Diodato tra i fermati non appare. Dunque è molto probabile che sia rimasto in Bolivia.
Ufficialmente l’uomo che secondo il Sisde era legato ai Santapaola sarebbe entrato nel Paese andino solo nel 1983; è molto probabile che in realtà questa data sia stata dichiarata dallo stesso Diodato proprio per nascondere la sua appartenenza al gruppo diretto da Klaus Barbie.
L’inchiesta del 1999/2000 riportata dal Sisde era partita dal ritrovamento di una serie di sim clonate; per gli agenti italiani dietro quegli affari ci poteva essere un tentativo «di inserirsi nelle attività ivi intraprese dalla Telecom Italia spa», che all’epoca deteneva il 50% dell’operatore boliviano Entel. Successivamente la magistratura boliviana scoprì una rete di società facenti capo a Diodato che gestiva decine di Casinò nella zona di Santa Cruz de la Sierra.
Il Centro di Documentazione e Informazione Bolivia – organizzazione che dal 1970 si occupa di temi sociali e ambientali – riporta anche i contatti politici che il gruppo aveva costruito: «La mafia scoperta (legata al gruppo Santapaola) aveva penetrato partiti politici (…) e le forze armate. Il capo del gruppo mafioso, Marino Diodato, è riuscito a montare un impero di quasi cento imprese (…) e si dice che potrebbe aver trafficato fino a 8 tonnellate di droga attraverso la “Santa Cruz connection”». Insieme a lui vennero all’epoca arrestati altri sei italiani, alcuni dei quali furono poi rilasciati.
Di Diodato si sono perse le tracce da 19 anni. Venne internato in una clinica da dove è fuggito il 31 dicembre del 2003. Da allora il suo nome è riapparso diverse volte nelle cronache. Poco dopo la sua fuga, il magistrato che stava indagando su di lui, Monica Von Borries, muore a 39 anni in un attentato eseguito collocando una bomba nella sua automobile. Per il ministero dell’Interno boliviano non c’erano dubbi: a mettere l’esplosivo furono le mani dell’italiano Diodato.