Il 5 novembre una donna partorisce, attraverso un cesareo d’urgenza, all’ospedale Buccheri La Ferla di Palermo. Quel bambino, però, non nascerà mai perché muore durante il parto.
La famiglia, che ha già sporto denuncia di fronte al Comando dei Carabinieri della Stazione di Palermo Scalo, ritiene che si tratti di un caso di malasanità. La Procura ha già avviato un’indagine sul caso e la PM titolare del fascicolo ha disposto l’autopsia e nominato un consulente tecnico per analizzare la cartella clinica.
Ma cosa è successo davvero quella notte del 5 novembre? Cosa è andato storto? Ci sono diversi interrogativi, infatti, a cui l’ospedale – nel suo stesso interesse – dovrebbe rispondere e fornire chiare delucidazioni.
Il responsabile per le relazioni con la stampa della struttura ospedaliera Buccheri La Ferla, Avvocato Giovanni Vrenna, da noi contattato, ha dichiarato che è stato avviato un audit interno: “È stata avviata un’indagine interna per accertare il percorso clinico e diagnostico della paziente”.
Noi siamo riusciti a parlare, in esclusiva, con la diretta interessata di questa vicenda. La protagonista di questa tragedia si chiama Fidia Maria Francesca Tomasino la quale ha scelto di rompere il silenzio e di raccontare la vicenda attraverso la sua voce, le sue parole e i suoi ricordi, che ha prontamente appuntato, per non rischiare di non perderne i contorni. La donna confida nella magistratura a cui spetta, adesso, di ricostruire ogni ulteriore dettaglio della sconvolgente vicenda.
Ecco la sua preziosa testimonianza:
«Sono stata seguita dall’ambulatorio di gravidanze a rischio del Buccheri La Ferla di Palermo per tutta la gravidanza. Mi sono sentita maltrattata durante tutto il percorso di accompagnamento alla nascita, non mi sentivo mai al sicuro: attese infinite, ritardi di ore in fase di visita, poca chiarezza e confusione. Tra i tanti, ricordo un episodio nello specifico: il 23ottobre effettuo l’esame diagnostico ecografico in ambulatorio con il dottor C., e lì ci accorgiamo che la crescita del bambino sta rallentando. Me ne accorgo io, in realtà, sono io a farlo notare al dottore che mi prescrive la flussimetria – il cui esito non mi ha mai consegnato -. A questo punto chiedo al dottore se fosse il caso di programmare un cesareo- soffrivo di una grave gestosi- e lui mi risponde: “i bambini nascono quando vogliono”».
«Il 2 novembre effettuo una visita in ambulatorio con la dottoressa P., che decide di ricoverarmi immediatamente. La dottoressa si accorge che neppure nei sistemi dell’ospedale era presente il referto della flussimetria prescritto dal dottor C. Arrivata in reparto inizia l’iter dei monitoraggi, e la prima visita a cui vengo sottoposta risulta per me particolarmente dolorosa, lo faccio presente e inizio a sanguinare. L’ostetrica che mi ha visitata mi tranquillizza, dicendomi “è normale, ti stai preparando al parto”. In tutto questo la pressione sanguigna era altissima, e il personale sanitario concorda nell’avviare il protocollo di induzione al parto. Mi prescrivono le pillole di Angusta per attivare il travaglio – che avrei dovuto prendere per tre giorni -. Il giorno dopo mi inseriscono il palloncino (un altro metodo per attivare il travaglio). Grazie a questo raggiungo 2 cm di dilatazione, così mi chiedono di firmare il consenso per avviare il trattamento di induzione con la terapia Angusta. Io, nel frattempo, continuavo a chiedere se ci fosse la possibilità di ricorrere al cesareo, ma mi dicevano che non c’erano le condizioni. Non mi hanno mai dato una vera spiegazione».
«Inizio il protocollo dell’induzione con la terapia di Angusta, prendo una pillola ogni due ore e il personale monitora il progredire della situazione attraverso tracciati periodici. Le pillole mi provocano una sonnolenza notevole, e io noto un intorpidirsi anche del bambino, perché mi accorgo che non lo sento più muoversi da un po’. Il giorno dopo, quindi ormai il 5 novembre, mi si rompono le acque e partono le contrazioni. Alle ore 21:30 di quel giorno, vengo affidata all’ostetrica R.B. che mi visita frettolosamente e mi somministra la pillola di Angusta , quando le chiedo come mai lei non mi sottoponesse a tracciato mi risponde: “Faccio l’ostetrica da 35 anni, non occorre, io una donna in travaglio la riconosco dalla faccia. Tu non lo sei”. Dopo mezz’ora inizio a perdere del sangue, così torno in reparto dove vengo accolta dall’ostetrica A.A. che mi dice che non ero in travaglio, che ciò che mi stava accadendo era frutto di un falso travaglio dovuto all’induzione. Mi dice che avremmo dovuto attendere il mio vero travaglio e “quando inizierà te ne accorgerai da sola”».
«Io, a questo punto, pretendo di essere sottoposta a visita per valutare lo stato d’avanzamento del travaglio , ma l’ostetrica A.A. mi risponde che non c’erano letti liberi e che se anche avessi raggiunto la dilatazione necessaria a ricorrere all’analgesia, non avrei trovato anestesisti disponibili. Alle ore 23:30 finalmente riesco a ottenere la possibilità di un monitoraggio attraverso il tracciato, che mi viene montato da un ostetrico che nel frattempo ordina dei panini al telefono con Glovo. Ricordo pure il tipo di panini che stava ordinando, pensa! Mi accorgo che sia lui che l’ostetrica A.A. non riescono a rintracciare il battito del cuore del bambino e mi dicono che forse la responsabilità di questo era da imputare a un guasto del sensore del tracciato. Così, dopo qualche minuto, arriva il ginecologo D.A. che inizia a visitarmi con l’ecografo e nulla, il battito non c’era».
«Io inizio a urlare. La stanza si riempie rapidamente di personale sanitario, tra cui anche l’ostetrica R.B. che, in mezzo alle mie urla, si preoccupa di giustificarsi a suon di “quando l’ho visitata il battito c’era”. Non era vero, a lei era bastato guardarmi in faccia. Mi spogliano e mi somministrano l’anestesia spinale ma non aspettano che faccia effetto, tant’è che ricordo perfettamente il momento in cui mi praticano l’incisione sul ventre e quello in cui estraggono la testa del bambino dal mio corpo. Poi non ricordo più nulla. Il ricordo successivo che ho risale al momento del mio risveglio, quando mi comunicano che mio figlio era morto. Dopo qualche minuto da questa notizia, arriva nella mia camera l’ostetrica A.A. che mi monta le flebo, senza alcuna delicatezza o empatia. Fuori dalla sala parto c’era tutta la mia famiglia, tra cui mia madre e il mio compagno. Nessuno dei medici si è preoccupato di avvisarli del fatto che il bambino era morto, né di quello che avevo subito».
«In tutto questo, mi prescrivono una cura antibiotica perché mi hanno operata in un ambiente non sterile. Mi avevano detto che la placenta sarebbe dovuta essere messa sottovuoto e spedita immediatamente in laboratorio, invece i miei genitori l’hanno trovata in camera mortuaria, in un sacco, accanto alla salma del mio bambino. Da quando è accaduta la vicenda, ricevo quotidianamente decine e decine di testimonianze di donne che mi raccontano di aver vissuto un’esperienza di parto negativa, all’interno dello stesso ospedale. Ho cercato su internet, ed effettivamente esistono diversi casi di cronaca a conferma: la morte di parto di una ragazza e suo figlio nel 2005 a causa di un’emorragia interna, la morte di una ragazza dopo il parto nel 2015, a seguito di un’infezione – l’ospedale è stato condannato a risarcimento -, l’indagine contro ginecologa e ostetrica dell’ospedale a cui si imputa la responsabilità dei danni al cervello di un bambino che hanno fatto nascere nel 2016, la morte d un bambino dopo un cesareo d’urgenza nel 2020, la morte di una donna incinta e del suo bambino nel 2022. Tutto nello stesso ospedale, il Buccheri La Ferla di Palermo. E stavolta è toccato a Noah. Stavolta è toccato a mio figlio».
«Ho registrato in un vocale tutto l’accaduto perché se da una parte vorrei dimenticare questa storia per proteggermi dall’immenso dolore che mi provoca, dall’altra non posso permettere di eliminare dalla mia memoria ogni minuscolo dettaglio, perché so che può servire per avere giustizia e capire perché il cuore di mio figlio ha smesso di battere insieme al mio. Io e il mio compagno meritiamo giustizia, insieme a Noah».
In merito alla questione secondo cui esistano diversi casi di malasanità all’interno dell’ospedale Buccheri La Ferla di Palermo, l’Avvocato Vrenna responsabile delle relazioni con la stampa ci ha spiegato: “Questa affermazione io la rispedisco al mittente perché è assolutamente priva di fondamento e di certezze. L’ospedale di Palermo è il punto di eccellenza della natalità, per cui arrivano tutti i parti complessi. Statisticamente è normale che possa succedere qualche cosa”.
Quanto alla vicenda dell’ostetrico che ordinava panini su Glovo, Vrenna replica: “Non è assolutamente vero”. Facendo notare all’Avvocato che questo dettaglio emerge dalla testimonianza della donna, gli chiediamo come faccia a dire che è falso, a maggior ragione se – come sostiene – lui non ne era al corrente. Come fa, dunque, l’Avvocato a sapere che non è vero?
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