In Italia una donna su due non lavora. Alla nascita del primo figlio il 30 per cento delle madri abbandona la propria occupazione. Dopo la separazione il 60 per cento delle donne si ritrova nell’indigenza.Solo nel 2020 ci sono state, tra i neo genitori, 42mila licenziamenti. Il 77 per cento dei quali ai danni di neo mamme. Tre donne su dieci non hanno un proprio conto corrente. Solo il 27 per cento delle donne si definisce padrona delle proprie finanze. Ognuna di queste donne ha una storia diversa. Tra i milioni di vissuti singolari, però, compare un fattore comune: il lavoro domestico e di cura. In Italia, infatti, l’80 per cento del lavoro domestico e di cura spetta alle donne. Mi sono soffermata su questo dato per i mesi che hanno composto il primo anno di vita di mio figlio, in cui è nata in me una necessità di rivoluzione. All’origine di quel dato c’è un fatto: il lavoro domestico e di cura non solo è stato culturalmente imposto alle donne, ma anche trasformato in un attributo naturale della nostra personalità femminile, un’aspirazione derivante dal profondo della nostra natura. La narrazione della figura della donna subisce continue mutazioni, infatti se fino a qualche decennio fa per essere donne socialmente accettate dovevamo essere devote angeli del focolare, oggi la figura della donna moderna è multitasking, sportiva, che indossa ancora quel grembiule da angelo del focolare, ma lo alterna al mantello da super eroina con la borsa da donna in carriera. Di fatto, l’ingresso della donna nel mercato salariato non l’ha liberata da quello domestico, come scandisce quell’80 per cento.
Uno dei fardelli più gravosi in tema di lavoro domestico è affrontare una ripartizione equa del lavoro all’interno del nucleo familiare. Alcune famiglie cercano una forma di equità avvalendosi di un’immaginaria formula che quantifichi la fatica del lavoro salariato di tutti i componenti e poi distribuire le faccende domestiche in modo da pareggiare i conti. Quantificare la fatica, però, è un’operazione che non si appoggia ad alcuna scienza esatta. Il lavoro domestico verte su ripetitività e reperibilità h24. Riposare significa non essere reperibili e appropriarsi del proprio tempo. Le rarissime volte in cui la lavoratrice domestica riesce a farlo deve fare i conti con il senso di colpa, perché sradicare certi pensieri interiorizzati non è un’impresa facile. La differenza tra il lavoro domestico e un qualunque lavoro salariato, anche il più fisicamente usurante, è proprio qui: nell’assenza di riposo, di cartellini e di ferie. La lavoratrice domestica, nonostante questo enorme carico, è ancora definita fortunata mantenuta.Qual è il ruolo della donna all’interno della famiglia e quanto vale il suo lavoro? Partiamo dal tempo. Io e il mio team di economiste abbiamo stimato le ore settimanali di lavoro domestico e di cura, che ammontano a circa quaranta ore settimanali (stime confermate dall’Istat) tra mansioni di: bilancio familiare, cucina, aiuto compiti, pulizie, animazione, cura, trasporto, educazione. Esiste un metodo per stimare il valore economico di tutto questo lavoro, che si applica valutando un’ora di lavoro domestico con la stessa retribuzione media di chi potrebbe essere assunto sul mercato per compiere la stessa attività. Secondo questo calcolo il valore economico del lavoro domestico è di circa 6.971 euro al mese. A tutto questo si aggiunge l’indennità da privazione del sonno. Si stimano, infatti, 700 ore di sonno perse nel primo anno di maternità. Anche in questo caso le figure maggiormente interessate sono le donne. Chi ha avuto a che fare con la privazione del sonno sa che si tratta di un vero mostro, che rende acrobatiche anche attività quotidiane come guidare la macchina o pensare lucidamente, ma dalla nostra società è ancora normalizzato o glorificato. Una mamma che passa la notte a cullare il proprio figlio o figlia è una brava mamma. Esiste una sorta di unità di misura per cui più si sacrifica più si è brave mamme. Questa narrazione ci espone a una vulnerabilità che non ci appartiene e ci allontana dall’autodeterminarci, travestendo di eroismo quello che, di fatto, è sacrificio. È da questo enorme carico fisico mentale che dipende la difficoltà di concentrazione in cui spesso incorrono le neo mamme. Anche questo è stato normalizzato dalla dicitura mommy brain, infantilizzando e romanticizzando un reale disagio delle neo mamme.
Il salario al lavoro domestico rappresenta il primo passo per rendere visibile ciò che è da anni lavoro invisibilizzato. I soldi sono, da sempre, la lente attraverso cui le cose diventano visibili. Attraverso cui le cose, di colpo, esistono. I soldi, però, sono anche uno strumento di emancipazione e libertà. Che può rappresentare uno spiraglio di luce dalle finestre delle donne che vivono nell’alone della violenza economica e non possono contare su alcuna rete di sostegno (in Italia, nel 2020 nei centri antiviolenza il 34 per cento delle donne denunciava la violenza economica). Disporre di servizi sociali come asili gratuiti e lavanderie gratuite rappresenterebbe un importantissimo traguardo, ma per ottenere un reale cambiamento bisogna decostruire alla radice la visione comune del ruolo femminile. Una delle obiezioni in cui mi sono imbattuta da quando ho iniziato la campagna lamentava la possibilità che pagare le donne per stare a casa avrebbe disincentivato la loro voglia di trovare un lavoro e scoprire i loro talenti. Bisogna ricorrere a uno stravolgimento di prospettiva. Ci sono milioni di tesi a sostegno del fatto che la debolezza della donna nel mercato salariato (una tra tutte quella di Silvia Federici) sia da ricondurre proprio alla consapevolezza dei datori di lavoro che le donne siano abituate a lavorare gratis. Mi spiego meglio: siamo cresciute convinte che fare il bucato avesse valore morale e che farlo tutti i giorni facesse di noi delle brave figlie, mogli o madri. Siamo cresciute vedendo la dedizione come un dovere che determina il nostro valore. Allo stesso tempo, abbiamo fortemente bisogno di un’indipendenza economica perché l’autodeterminazione, per noi, ha un prezzo più alto. È anche sulla base di questi fattori che i datori di lavoro hanno storicamente pensato di poterci assumere a prezzi più bassi. Ed è anche per questo che il raggio di possibilità di una maternità imminente o scongiurata rappresenta un parametro di valutazione in fase di assunzione, a volte neanche celato. Inoltre, lo spettro del lavoro domestico e di cura ha sempre gravitato attorno al lavoro salariato femminile. È lampante come i lavori creati per le donne siano solo un’estensione del lavoro domestico, riproducendo quel ruolo in forme diverse: infermiere, cameriere, insegnanti e segretarie. Tutte funzioni alle quali siamo state addestrate in famiglia, sotto un tirocinio ventennale delle nostri madri senza salario (fattore che dimostra che non si tratta affatto di naturale predisposizione, ma di lavoro e formazione).
Per tutte queste ragioni, ho ritenuto necessario costruire una proposta di legge, istituita dalla legale Camilla Fasciolo, per il diritto salariale del lavoro domestico e di cura. La proposta è limitata da requisiti realistici e accessibili: Isee minimo, presenza di minori di 3 anni all’interno del nucleo famigliare e altri. La legge tutelerebbe tutte le famiglie, comprese quelle mono genitoriali, la cui sopravvivenza può essere doppiamente dura. La mia proposta è nata pensando alla figura della donna, inevitabilmente, ma vuole includere anche quel 20 per cento di popolazione maschile che compie il lavoro domestico e di cura e che naturalmente potrà beneficiare del bonus e del riconoscimento del suo lavoro. Mettere al mondo un figlio, oggi è un atto rivoluzionario. Chi sceglie di farlo, con tutti gli oneri e onori del caso, non deve essere invisibilizzato. Deve essere supportato. «Per crescere dei bambini, che poi sono piccole persone, serve un villaggio».