L’appello dei neolaureati in Medicina: “Fateci specializzare”
Nicola Guareschi ha 31 anni, si è laureato in Medicina nel 2017 e da quando ha superato l’esame di abilitazione cerca di passare il concorso per accedere alla scuola di specializzazione. L’ultima volta ci ha provato nel 2019 insieme ad altri 16mila medici laureati e abilitati, quando le borse di studio messe a disposizione dal ministero dell’Istruzione sono state 7mila, e così insieme a lui sono rimaste fuori altre 9mila persone. Quest’anno non gli andrà meglio: le borse disponibili sono 8mila a fronte di 20mila richiedenti. “Significa che 12mila resteranno senza”, racconta. Proprio nel pieno di un’emergenza, quella legata al Covid-19, che ha svelato come il Servizio Sanitario Nazionale sia carente non solo in termini di strumenti e spazio per la terapia intensiva, ma di medici: specialisti necessari a seguire i pazienti nei servizi territoriali, nel pretriage degli ospedali, nella fase che precede il passaggio alla terapia intensiva.
“C’è il paziente Covid a cui manca il letto, e il paziente a cui invece manca un medico. Anche nel pretriage molta gente si è aggravata perché non c’era un medico che potesse seguirlo”, racconta a TPI Guareschi, che durante l’epidemia ha lavorato in una struttura privata convenzionata di Parma per aiutare il personale durante i turni notturni. Per lui, che fa parte dell’Associazione Liberi Specializzandi, così come per molte altre associazioni e sindacati, l’emergenza sanitaria causata dal Coronavirus è dipesa in gran parte dalla mancanza di personale in corsia, un buco drammatico di circa 8mila unità che mancavano al Servizio Sanitario Nazionale anche prima che esplodesse l’epidemia, e che adesso è troppo tardi per sanare, perché per formare un medico sono necessari 11 anni, 6 di laurea e fino a 5 di specializzazione.
“Se lo Stato ha bisogno di 8mila medici oggi deve sapere che avrebbe dovuto iniziare a formarli 11 anni fa”, dice Guareschi, ma già a partire dal 2013 il ministero dell’Istruzione, che ogni anno decide il numero di posti nelle scuole di specializzazione sulla base del parere della ministero della Sanità, della conferenza Stato Regioni e dei fondi messi a disposizione dal ministero dell’Economia, ha iniziato a ridurre le borse. Se tra il 2008 e il 2012 queste erano state 5mila ogni anno, nel 2013 furono 4.500. E anche se negli anni successivi il numero è tornato a salire con una media di 6mila borse l’anno, questo non è bastato ad assorbire i circa 10mila medici neolaureati che di volta in volta attendono di entrare in una scuola. La stessa quantità di specialisti di cui il Servizio Sanitario Nazionale ha drammaticamente bisogno oggi in un Paese dove secondo l’Eurostat, intanto, il 54 per cento di medici ha oltre 55 anni, la maggior parte di questi va in pensione a 65, e un medico su due fa le valigie per lavorare in Paesi più appetibili.
Stando ai dati della Commissione Europea, in dieci anni, dal 2005 al 2015, oltre diecimila medici hanno lasciato l’Italia per lavorare all’estero, in quegli stati europei dove la spesa pubblica sanitaria – nel nostro Paese pari a circa il 6,6 per cento del Pil – supera l’Italia di almeno 5 punti, come Francia, Germania e Svizzera, o negli Emirati Arabi, dove i compensi oscillano tra i 14 e i 20mila euro al mese. E l’emigrazione riguarda anche gli stessi neo abilitati in attesa di un contratto di formazione specialistica: uno studio condotto dal Consulcesi group ha evidenziato che ogni anno 1.500 laureati in Medicina lasciano l’Italia per frequentare scuole di specializzazione. Una perdita economica per lo Stato considerando che ogni studente costa ai contribuenti 150mila euro, 300mila se specializzato. Tasse che non tornano indietro ai cittadini in termini di servizi laddove non ci sono medici che possono curarli quando hanno bisogno, con o senza emergenza Covid.
Intanto, secondo l’Associazione medici dirigenti (Anaao Assomed), in questo periodo la curva dei pensionamenti sta raggiungendo il suo culmine, perché a partire dal 2009 escono dal sistema sanitario una media di 7mila dottori all’anno. Così entro il 2025 dei circa 105.000 impiegati nel pubblico ne andrà in pensione almeno la metà: 52mila dipendenti, che di questo passo non potranno essere rimpiazzati tutti con nuovi specialisti se la maggior parte dei neolaureati rimane indietro, intrappolata nel cosiddetto “imbuto formativo” e in attesa di affacciarsi al mondo del lavoro con una borsa di studio. Salvo poi decidere di trovarla all’estero. La bolla formativa non si può sgonfiare se i ministeri (quello dell’Istruzione, dell’Economia e della Salute) non aumentano i posti in specializzazione, ripensando al modo di distribuire la spesa pubblica e le risorse assegnate al sistema sanitario.
A marzo il ministro dell’Istruzione aveva promesso di dare un segnale: la bozza del decreto Cura Italia preparata per sostenere l’economia italiana nell’emergenza Covid aveva previsto lo stanziamento di fondi necessari a finanziare 5mila contratti di formazione in più oltre agli 8mila già stanziati. Ma dal testo del decreto definitivo, le 5mila borse sono state cancellate. Il governo si è limitato a mettere una toppa solo per la fase di emergenza, e con il Dpcm del 9 marzo sul potenziamento del Servizio Sanitario Nazionale ha previsto la possibilità di conferire incarichi di lavoro autonomo fino al 31 luglio 2020, “con durata non superiore ai 6 mesi, e comunque entro il termine dello stato di emergenza” ai “laureati in medicina e chirurgia abilitati all’esercizio della professione medica e iscritti agli ordini professionali”. Una chiamata alle armi “usa e getta” che, al termine dell’emergenza, ributterà i camici grigi nella bolla formativa e non avrà provveduto a sanare il buco di personale almeno per i prossimi cinque anni, quando al sistema sanitario potrebbero mancare ancora migliaia di medici, se non si agisce subito.
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