Non hanno colpe, per loro non c’è stata imputazione, processo né condanna. Eppure, sono reclusi insieme alle loro madri. È questa la sorte di quelli che vengono chiamati “innocenti assoluti”, i bambini che vivono in carcere con le proprie madri detenute. Lo scorso 17 febbraio la ministra della Giustizia, Marta Cartabia, in audizione a Palazzo San Macuto alla Commissione Infanzia, si è posta pubblicamente l’obiettivo di eliminare questo problema. «La nostra meta ideale è mai più bambini in carcere», ha dichiarato. Ma l’obiettivo finora non è stato centrato. Anzi, se tre mesi fa i figli di detenute in carcere erano 16, adesso sono arrivati a 20. Una cifra più bassa rispetto ai picchi dei primi anni Duemila, quando si è arrivati a contare anche più di 70 bambini negli istituti penitenziari, ma che non registra ancora una diminuzione costante. Basti pensare che nel luglio scorso il carcere bolognese la Dozza ha inaugurato la sezione nido e da qualche mese a Rebibbia è aumentato il numero dei bambini reclusi.
Secondo i dati pubblicati dal ministero e aggiornati al 30 aprile scorso, i bambini in carcere sono quindi 20, per 18 mamme. Il gruppo più consistente è composto dai 9 bambini ospitati nell’Istituto a custodia attenuata per madri detenute (Icam) di Lauro, in provincia di Avellino, che è l’unico non dipendente da un istituto penitenziario; altri 6 bambini sono all’interno della sezione nido della Casa Circondariale di Rebibbia Femminile; due bambini vivono nella Casa Circondariale di Milano San Vittore e tre in quella di Torino.
Sull’argomento dei bambini in carcere si è tornati a parlare per l’arrivo in aula del progetto di legge che ha come primo firmatario il deputato del Pd Paolo Siani. Il testo, che è stato approvato in Commissione Giustizia della Camera pochi giorni fa, prevede la modifica della legge n.62 del 2011, istitutiva degli Icam. Attualmente gli Istituti a custodia attenuata per madri detenute sono cinque: oltre a quello già citato di Lauro, ne esistono a San Vittore, a Milano, alla Giudecca, a Venezia, a Torino nel carcere “Lorusso e Cutugno”, e a Cagliari.
«Ad oggi non esiste molta differenza tra Icam e struttura carceraria ordinaria», spiega a TPI Susanna Marietti, coordinatrice nazionale di Antigone, associazione che dal 1991 lavora alla promozione dei diritti e delle garanzie nel sistema penale e penitenziario. «L’Icam continua a essere un carcere, è gestito dal ministero della Giustizia, si sconta la pena della reclusione, la donna non può uscire. Ci sono alcune differenze negli spazi, è un regime un po’ più aperto, per cui si può andare fuori dalle stanze, ma questo accade anche, ad esempio, al nido di Rebibbia».
Una situazione diversa è quella delle case famiglia dove le donne con figli possono scontare misure alternative, tendenzialmente la detenzione domiciliare speciale. Anch’esse erano previste dalla legge del 2011, ma oggi ne esistono soltanto due: quella milanese, gestita dall’Associazione C.I.A.O., e la “Casa di Leda” a Roma. «Le case famiglia furono pensate per la detenzione domiciliare speciale per detenute madri, poi una legge priva di copertura finanziaria ha di fatto impedito che venissero costruite», dice Marietti. «Oggi la situazione è diversa, con l’ultima legge di bilancio sono stati stanziati appositamente dei fondi, c’è da sperare che siano utilizzati».
Il disegno di legge Siani ha l’obiettivo di potenziare il ricorso alle case famiglia protette nei casi in cui la madre di un figlio minore di 6 anni non abbia una abitazione nella quale poter usufruire degli arresti domiciliari durante il processo o poter espiare la pena, una volta divenuta esecutiva la sentenza di condanna. «Mentre la legge del 2011 lasciava agli enti locali l’onere di occuparsi delle case famiglia, il nuovo progetto di legge impone allo Stato di coordinarsi con le amministrazioni locali. Con lo stanziamento dei fondi appositi, ciò rende più probabile che le case famiglia stavolta si costruiscano davvero. Per il resto, non credo che sul tema si possa intervenire ancora normativamente», commenta Marietti. «Un ulteriore passo avanti sarebbe quello di un maggiore impegno della magistratura di sorveglianza sui singoli casi: serve una presa in carico più veloce, una mentalità aperta a favorire l’accesso a misure alternative e lo studio dei vari fascicoli. Con un po’ di creatività si può: lo abbiamo visto quando è scoppiata la pandemia e sono state dimezzate in un attimo le presenze dei bambini in carcere, a causa del rischio di contagio. Immediatamente ne sono usciti la metà».
Effettivamente, con l’arrivo della pandemia, la presenza dei bambini in carcere è diminuita, arrivando a contare alla fine del 2021 18 presenze, a fronte delle 48 di due anni prima, secondo il XVIII Rapporto dell’Associazione Antigone, pubblicato lo scorso 28 aprile. «Penso che l’obiettivo della ministra Cartabia si possa raggiungere, non per legge, ma seguendo il percorso da noi indicato: più fondi e maggiore attenzione dalla magistratura di sorveglianza», conclude la coordinatrice nazionale di Antigone. «Gli esempi positivi ci sono: a Roma la Garante del Comune Gabriella Stramaccioni, lavorando sui singoli casi ha proposto alla magistratura di sorveglianza per ognuna di quelle donne percorsi di esecuzione penale esterna. A un certo punto, al nido di Rebibbia, che era il più grande d’Italia, non c’era più neanche un bambino».