«Ormai che c’è il Reddito di cittadinanza, perché andare a lavorare?». E, ancora: «Caccia ai Rom». O, piuttosto, «la colpa è dello straniero». Sequenza di mantra che sempre più spesso si rincorrono nei talk show e che danno vita ad azzuffate – più televisive che reali – fra politici di destra e di sinistra. Un racconto sovente in copia carbone, declinato fra campi nomadi in cui trionfa l’estremo lusso o piazze furiose che si scagliano ora contro le tasse, ora contro i migranti o «la dittatura sanitaria». Servizi elaborati su tesi precostituite, che rappresentano – soprattutto in periodo di campagna elettorale – un lampante esempio di manipolazione mediatica, e che oggi un insider della televisione populista ha deciso di rivelare con “Caccia al nero. Confessioni di un insider della Tv populista” (Chiarelettere, in libreria dal 13 settembre).
L’autore, che ha preferito restare anonimo, conduce per la prima volta il lettore nel sottobosco catodico, popolato da personaggi senza scrupoli, cronisti ormai disillusi o in eterno conflitto con la propria coscienza, notizie artificiosamente gonfiate, piazze ammaestrate a dovere, campagne anti immigrati e claque razziste. «La cosa che lascia più sorpresi – spiega l’insider, che abbiamo intervistato in anteprima – è che in redazione tutti siano consapevoli della manipolazione in atto. Pochissimi la condividono, ma chi non è d’accordo si ritrova al centro di un ricatto. Ribellarsi significa non essere richiamati per la stagione successiva perché tutti gli inviati, soprattutto in questi talk show di parte, sono precari».
L’anonimo insider però ha deciso di parlare e così, dopo un anno passato in una nota trasmissione serale – una di quelle che colleziona ogni settimana milioni e milioni di telespettatori – ha raccontato la sua esperienza in un libro a tratti scioccante, a tratti paradossale. Non mancano i momenti di comicità involontaria, che obbligano a una profonda riflessione. Emblematico l’episodio che lo vede protagonista in Sicilia: «Girava sul web un articolo secondo cui a Palermo il titolare di un’azienda di camionisti offriva lavoro ben retribuito ma nessuno accettava la sua proposta. Mi è bastata una telefonata per scoprire che, al contrario di quello che mi avevano detto, il Reddito di cittadinanza non c’entrava nulla: il problema era la necessità di avere la costosissima patente C. Provai a spiegarlo agli autori, ma nessuno era interessato».
E così il servizio viene costruito ad hoc, facendo emergere un’altra verità: che i giovani siciliani sono sfaticati e prendono il bonus rifiutando ogni proposta di lavoro. «A dimostrazione del lavoro a tesi – prosegue ancora l’autore del libro – ci sono i banner che scorrono sotto i servizi: molto spesso sono preparati prima di andare a girare». Manipolazione totale dunque. Il racconto viene distorto in base al messaggio che si vuole trasmettere, e che viene dato in pasto a un pubblico spesso frustrato, assetato di odio e sempre più vorace di schiamazzi, litigi e luoghi comuni.
Il risultato è una narrazione per stereotipi che, ovviamente, obbedisce alla causa: lo zingaro che ruba, il nero che non vuole lavorare o che toglie l’impiego agli italiani, ma anche l’italiano stesso – meglio se del Sud – che campa con il Reddito di cittadinanza sulle spalle degli onesti cittadini che quotidianamente si spaccano la schiena e sovente non riescono ad arrivare alla fine del mese. «Sono sincero», spiega ancora il nostro insider, «avrei voluto alzarmi e girare i tacchi. Invece rimasi in quella redazione per un anno intero. Guadagnavo tre volte e mezzo quel che piglia un metalmeccanico, ma avevo la faccia vergognosamente schiacciata nel grande mare di melma prodotta da quel maledetto programma populista trasmesso da un importante tv privata».
Un trauma della coscienza difficile da cancellare, che riemerge limpido fra le pagine del libro: «La volta che sono rimasto più impressionato – aggiunge l’autore – è quando ho scoperto come funzionano le “piazze”, la vera molla che fa schizzare lo share. Non c’è niente di spontaneo, anzi». Il sistema, come si racconta nel libro, è precisissimo: una squadra di redattori passa ore e ore al telefono contattando, tramite associazioni e comitati, le persone più arrabbiate, le prepara a dovere e il gioco è fatto. Quando la telecamera si accende, ognuno sa cosa deve fare e cosa deve dire, come se ci fosse un copione già scritto. È chiaro leggendo un passaggio del libro. «Supponiamo – rivela nel volume un collega al nostro insider – che ci sia da mettere su una piazza contro l’aumento delle tasse. Hanno un politico di sinistra in studio ed è appena andato in onda un bel servizio commovente su qualche imprenditore tartassato dal fisco. Mi segui? Be’, a questo punto ci vuole la piazza. E che fanno? Tirano fuori le loro agende e chiamano un bel po’ di associazioni di negozianti. Si fanno mettere in contatto con i tizi più arrabbiati, quelli che per pagare le tasse non hanno potuto far operare la madre morente, roba così. Li briffano uno a uno e li convocano nello stesso posto. Poi funziona come un set, con quelli dietro le quinte che danno la parola prima a uno e dopo all’altro, a seconda di cosa va detto. Conclusione: il politico in studio riceve un bel po’ di merda, e come vedi è tutta merda vera». «Diciamo vera, sì, ma accuratamente selezionata», azzarda l’autore. «Bravo! È questo il punto, no? Perché mentire, quando puoi selezionare le verità che ti piacciono di più?».
Arriva però il momento della resa dei conti che, per l’insider, corrisponde a un servizio del tutto inventato. «Un migrante – racconta – aveva fatto incidente con la macchina e ne era uscito sbraitando contro le forze dell’ordine. Dalla redazione arriva l’ordine: “Facciamo qualcosa su questo caso, ventilando la pista del terrorismo islamico”. Vado sul posto, parlo con tutti i personaggi coinvolti, ma nessuno, neanche il sindaco di centrodestra, pensa che sia un caso di terrorismo. Più semplicemente è stato lo stress psicologico a far andar fuori di testa il migrante. Alla fine il pezzo non ha l’elemento islamista. E non va bene: bisogna per forza infilarcelo».
L’inviato-insider si rifiuta, toglie la firma dal servizio, ma questo va comunque in onda e contiene indebitamente la pista del terrorismo. «In quel momento ho deciso di andare via, e ho pensato di scrivere quello che avevo vissuto, e rispetto al quale mi ero vergognato per un anno, in un libro. Amo il giornalismo e credo nella sua funzione di smuovere le coscienze raccontando ciò che accade nel mondo. Lì, invece, il meccanismo era esattamente l’opposto. Forse queste pagine sono servite a redimermi». Resta però una domanda: e ora? «Il problema è che tutti i programmi si stanno uniformando a uno stile gridato e fatto da servizi molto brevi e diretti. Se tutti però ci rifiutassimo e denunciassimo quest’andazzo, forse i racconti manipolati non andrebbero più in onda. È un problema di sistema però. Noi inviati siamo tutti precari e nessuno ci rappresenta, ma un briciolo di coscienza collettiva sarebbe, oggi più che mai, fondamentale».