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    Il grande inganno della transizione ecologica: gli interessi dell’Ue su gas e nucleare infilati nella tassonomia verde

    transizione ecologica

    Il Parlamento Ue ha inserito gas e nucleare nella tassonomia verde. Una decisione controversa e una pesante battuta d’arresto nel cammino verso la transizione ecologica. Ecco cosa comporterà tutto questo

    Di Marianna Lentini
    Pubblicato il 15 Lug. 2022 alle 10:59

    «Operazione greenwashing compiuta. Il Green Deal è morto», ha tuonato l’europarlamentare dei Verdi Europei – Europa Verde Eleonora Evi una manciata di minuti dopo il voto del 6 luglio a Strasburgo, che ha di fatto sancito l’inclusione di gas e nucleare nella tassonomia “green” della Ue: con 328 voti contrari e 278 favorevoli il Parlamento europeo ha respinto la richiesta di escludere le due controverse fonti energetiche dalla classificazione delle attività economiche considerate “sostenibili” sul piano ambientale dall’Unione europea.Una bocciatura, pur improbabile, sarebbe potuta arrivare in extremis per mano del Consiglio europeo prima della mezzanotte dell’11 luglio. Ma non è accaduto.

    La proposta di inclusione era stata avanzata qualche mese prima dalla Commissione europea sulla base della convinzione che le sole fonti rinnovabili non potranno soddisfare la crescente domanda di energia, timore accresciuto anche dalle criticità dovute al conflitto in Ucraina.

    Un voto, quello della scorsa settimana, che ha evidenziato a livello politico una spaccatura all’interno della cosiddetta “maggioranza Ursula” (a votare per il rigetto dell’atto delegato sono stati Verdi, Sinistra e S&D; per mantenere l’atto delegato hanno votato invece Ppe, Ecr, Id e la maggioranza del gruppo Renew) e ha innescato una serie di dibattiti accesi che hanno visto contrapporsi gruppi di scienziati cooptati dalla stessa Ue, i governi dei Paesi membri, spesso guidati da interessi di parte, e molte realtà della società civile, al culmine di un percorso avviatosi quattro anni prima.

    Il percorso della tassonomia

    Mentre negli ultimi anni gli impatti dei cambiamenti climatici hanno fatto crescere tra gli investitori l’interesse per la sostenibilità, la finanza pare non seguire un percorso propriamente in linea con questa tendenza: nel report Banking on climate chaos, redatto da un gruppo di organizzazioni non governative, si legge che nei sei anni successivi agli accordi di Parigi i sessanta maggiori gruppi bancari del mondo hanno investito nel settore fossile ben 4,6 trilioni di dollari. Un’inchiesta del maggio 2021 dell’Economist ha invece fatto i conti con i numeri dei 20 maggiori fondi venduti come ESG (ambientali, sociali e di governance) del mondo, svelando che mediamente ciascuno di loro detiene investimenti in 17 produttori di combustibili fossili.

    Pare, dunque, che gli intermediari finanziari continuino, nonostante gli avvertimenti della scienza, a far confluire enormi capitali nel settore fossile, responsabile di un cambiamento climatico sempre più tragico, rapido e dagli effetti tangibili, come ha evidenziato nel nostro Paese la tragedia della Marmolada delle scorse settimane.

    L’Unione europea ha da sempre avuto un ruolo di leadership nella lotta al riscaldamento globale nello scacchiere mondiale. Nell’ambito di tale impegno la Commissione Ue ha stabilito che il raggiungimento degli obiettivi climatici in ambito comunitario al 2030 richiederebbe 470 miliardi l’anno.

    A marzo del 2018, dunque, nel quadro del Green Deal europeo, la Commissione lancia l’Action Plan per la finanza sostenibile, un pacchetto di regole con l’obiettivo di ri-orientare i flussi di capitale pubblici e privati verso attività economiche compatibili con la transizione ecologica, gestire i rischi finanziari derivanti dai cambiamenti climatici e dai suoi impatti sociali, promuovere una finanza più trasparente e protesa agli investimenti a lungo termine, in vista dell’obiettivo emissioni zero entro il 2050.

    In sostanza il Piano d’azione si compone di una serie di strumenti politici atti a garantire che il sistema finanziario sostenga realmente la transizione delle imprese verso la sostenibilità.

    Fondamentale è, dunque, definire le attività economiche compatibili con la transizione ecologica sulla base di criteri oggettivi e condivisi. Da qui l’idea di lavorare sulla cosiddetta tassonomia che dovrebbe offrire agli intermediari finanziari una guida agli investimenti sostenibili, ai governi indicazioni per stabilire gli incentivi alle aziende green, alle stesse aziende regole chiare per rendicontare il proprio impatto sull’ambiente.

    Tre anni dopo, a marzo 2021, entra in vigore l’altro tassello dell’Action Plan, il Regolamento (Ue) 2019/2088, che obbliga gli attori finanziari a divulgare informazioni su come integrano i rischi ESG e come prendono in considerazione gli impatti negativi delle proprie politiche d’investimento su ambiente e temi sociali.

    Nelle stesse settimane vengono pubblicati i primi atti delegati (atti non legislativi adottati dalla Commissione per integrare o modificare determinati elementi non essenziali di un atto legislativo) del Regolamento (Ue) 2020/852, vale a dire la tassonomia, che contengono la controversa proposta di includere gas e nucleare all’interno della classificazione: «Tenuto conto dei pareri scientifici e dello stato attuale della tecnologia, la Commissione ritiene che gli investimenti privati nel settore del gas e del nucleare possano svolgere un ruolo nella transizione. Le attività selezionate in questi due settori sono in linea con gli obiettivi climatici e ambientali dell’Ue e ci consentiranno di abbandonare più rapidamente attività più inquinanti, come la produzione di carbone, a favore delle fonti rinnovabili di energia, che saranno la base principale di un futuro a impatto climatico zero», si legge nel comunicato emanato dalla stessa Commissione il 2 febbraio 2022.

    Inizia così il percorso accidentato della tassonomia: lo scorso gennaio un gruppo multidisciplinare di esperti designati dalla stessa Ue, la cosiddetta “Piattaforma per la finanza sostenibile”, composta da membri provenienti dal mondo della finanza, delle imprese, dei sindacati, dei consumatori, delle associazioni della società civile, dell’accademia e degli enti di ricerca, boccia sonoramente l’inclusione di gas e nucleare. Le motivazioni? Il gas è pur sempre una fonte fossile che comporta un quantitativo di emissioni climalteranti incompatibile con gli obiettivi fissati dalla comunità internazionale in termini di contenimento del riscaldamento globale. Mentre per quanto riguarda l’energia nucleare, all’interno del pronunciamento degli esperti si legge che, pur avendo emissioni prossime allo zero, non sarebbe una fonte sostenibile ai fini della tassonomia. Le centrali di nuova generazione, da autorizzare entro il 2045, infatti richiederebbero tempi di realizzazione molto lunghi, oltre a costi elevati, e diventerebbero operative troppo tardi per contribuire realmente alla mitigazione del cambiamento climatico e quindi a limitare il riscaldamento globale al di sotto degli 1,5 gradi, come auspicato negli Accordi di Parigi. Alcuni membri del gruppo hanno poi affermato che, sul piano dello smaltimento delle scorie, l’energia nucleare non risponderebbe al principio “do not significant harm” (non fare alcun danno ambientale significativo).

    Il governo tedesco annuncia poi il voto contrario all’inclusione del nucleare all’interno della tassonomia. I ministri dell’Ambiente e dell’Economia del governo federale dichiarano che il nucleare, i cui rischi di incidenti non possono essere mai scongiurati del tutto e la cui gestione delle scorie rappresenta ancora un punto interrogativo, non può essere considerata una fonte sostenibile in termini di sicurezza e gestione complessiva. Una presa di posizione che fa seguito a quella di Austria e Lussemburgo e che è diametralmente opposta a quella della Francia, il cui mix energetico è basato in buona parte proprio sull’energia atomica.

    A tutto ciò va ad aggiungersi, lo scorso maggio, la risoluzione presentata da un gruppo di parlamentari europei che intende rigettare la proposta avanzata da Bruxelles su gas e nucleare: con in testa l’ecologista Bas Eickhout, gli eurodeputati hanno sostenuto che includere le due fonti nella tassonomia creerebbe confusione negli investitori. L’obiettivo complessivo della tassonomia verrebbe raggiunto solo se si concedesse “l’etichetta” di sostenibilità unicamente agli investimenti davvero rispettosi sia del clima che dell’ambiente, e che non ledono il principio di innocuità.

    Infine a giugno le due commissioni del Parlamento europeo competenti per materia, Affari economici e Ambiente, salute e sicurezza alimentare, bocciano anch’esse la proposta di inclusione di gas e nucleare.

    Fino al voto in plenaria dello scorso 6 luglio in cui gli europarlamentari sono stati chiamati a votare i provvedimenti finali della tassonomia. Nei giorni precedenti, a Strasburgo sono arrivati attivisti e membri delle organizzazioni ambientaliste mentre sui social è stata lanciata la campagna #NotMyTaxonomy,  promossa da una serie di realtà e anche dal movimento della finanza etica: in prima linea ci sono tra gli altri Greenpeace, Fridays for future, Febea, (Federazione europea delle banche etiche e alternative) e il Gruppo Banca Etica che da sempre esclude dai suoi finanziamenti le fonti fossili e che ha anche inviato, nei giorni precedenti il voto, una lettera agli europarlamentari italiani chiedendo loro di votare contro l’atto delegato.

    La presidente di Banca Etica, Anna Fasano, aveva dichiarato che «includere gas e nucleare nella tassonomia significherebbe svuotare di significato l’intero percorso intrapreso dall’Europa per regolamentare finanza sostenibile. Riteniamo che con questo voto sia in gioco la credibilità di tutto il lavoro fatto fin qui».

    L’esito del voto, che ha sancito definitivamente il via libera dell’Europarlamento alla proposta di tassonomia della Commissione Ue, non ha tardato a generare accese reazioni: il già citato Bas Eickhout, vicepresidente della commissione Ambiente del Parlamento europeo, ha affermato che quella del 6 luglio è stata «una giornata buia per la transizione climatica ed energetica». Ma la decisione dei parlamentari ha destato scalpore anche alla luce del conflitto in Ucraina: il quotidiano inglese Guardian ha riportato le dichiarazioni di Svitlana Krakovska, climatologa ucraina e membro dell’Intergovernmental panel on climate change (Ipcc): «Sono scioccata. La guerra della Russia contro l’Ucraina è una guerra finanziata con i combustibili fossili. Il Parlamento europeo ha appena votato per aumentare miliardi di finanziamenti al gas proveniente dalla Russia. In che modo questo sarebbe in linea con la posizione dell’Europa di proteggere il nostro pianeta e stare al fianco dell’Ucraina?». Le fa eco la deputata ucraina Inna Sovsun, ex ministra dell’Istruzione, che ha twittato: «Putin si sta sfregando le mani oggi», aggiungendo che gli eurodeputati che hanno votato a favore o si sono astenuti sull’inclusione di gas e nucleare nella tassonomia verde hanno fatto “grandi doni” al presidente russo.

    Reazioni negative sono arrivate anche dallo stesso mondo della finanza: i criteri fissati dalla Ue inviano un «segnale debole al resto del mondo che potrebbe minare la posizione di leadership dell’Ue sull’azione per il clima», ha affermato Anders Schelde, chief investment officer del fondo pensione danese AkademikerPension, che gestisce circa 18,8 miliardi di euro di asset. «Le nuove regole rischiano anche di ostacolare la transizione verde incanalando denaro lontano da opzioni più sostenibili», ha aggiunto Schelde, «il gas fossile e il nucleare non dovrebbero avere accesso agli stessi finanziamenti a basso costo delle energie rinnovabili poiché questo inevitabilmente comprometterà i finanziamenti destinati alla transizione verde, rallentando i suoi progressi».

    Ma tuonano anche attivisti e organizzazioni ambientaliste. Greenpeace ha già minacciato azioni legali nei confronti della Commissione europea: «Siamo fiduciosi che i tribunali annulleranno questo greenwashing politicamente motivato perché chiaramente in violazione del diritto dell’Ue». Austria e Lussemburgo hanno confermato di voler fare ricorso alla Corte di Giustizia.

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