L’infermiere che ha trasformato una Rsa di Fano in un Covid Hospital
Francesco Alessandroni ha 32 anni ed è nato a Senigallia, una vita trascorsa tra il campo da basket e i corridoi delle Residenze per anziani, di cui è infermiere e coordinatore da quando ha iniziato a gestire una piccola struttura di 30 posti in provincia di Ancona. Tre anni fa è diventato responsabile della Residenza privata “Familia Nova“, a Fano, dove si è ritrovato a gestire il picco dell’emergenza Coronavirus in una delle province marchigiane più colpite dalla pandemia. Per farcela ha utilizzato lo spirito di squadra appreso nel basket, che ha fatto sì che nemmeno un operatore lo abbandonasse anche quando all’inizio mancavano i Dpi, o quando gli ospiti erano quasi tutti positivi. Lo stesso spirito che lo ha portato a combattere per ottenere tamponi, centinaia di bombole di ossigeno, personale medico e attenzione da parte di un Sistema Sanitario che lo aveva lasciato solo con 65 pazienti, di cui il 60 per cento era affetto da Covid-19.
Ora, dopo tre mesi di lavoro in cui ha trasformato una struttura impreparata in un Covid Hospital – e aver guadagnato il titolo di “sportivo dell’anno” nella sua città – il focolaio si è quasi spento, e a “Familia Nova” il 97 per cento dei pazienti risulta negativo al Coronavirus. Se gli chiedi come sta adesso, ti risponde che gli sembra di essere uscito da un vortice in cui “non aveva consapevolezza di quello che accadeva”. Eppure, quando ha elaborato il suo piano per combattere il virus, ha agito in modo del tutto consapevole. “Ne siamo usciti bene, abbiamo avuto 16 decessi ma era inevitabile. Abbiamo preso in mano una situazione incontrollabile e la nostra gestione è stata ottimale. Ma per arrivare a questo ho dovuto prendere decisioni rischiose e rumorose. Solo facendo rumore siamo stati aiutati”, racconta a TPI.
Cosa ti ha spinto a sollevare un polverone?
Dopo il primo caso di positività a inizio marzo ci sono stati negati gli altri tamponi. Il problema è che le persone presentavano complicanze in modo repentino, di fatto erano tutti sintomatici. A quel punto ci hanno dato 15 tamponi, risultati tutti positivi, ma gli altri test non hanno voluto inviarceli. Dicevano che potevamo considerarci tutti positivi. Intanto l’emergenza cresceva senza che da parte dei vari enti ci fosse un supporto, nemmeno il 118 riusciva ad erogare servizi, non erano in grado di venire a prendere le persone. Così ho deciso di sollevare il problema con giornalisti e tv locali. Quando hanno capito che la situazione poteva peggiorare, ci hanno inviato gli infermieri della Protezione Civile e vari supporti dal Servizio Sanitario Nazionale, che fino a quel momento era stato assente.
Come avete fatto a isolare i positivi senza contagiare chi era sano?
Quello che ha fatto la differenza è stata la presenza di una struttura in nostra gestione inaugurata a marzo proprio dietro la nostra e non ancora utilizzata. Quando abbiamo avuto la possibilità di fare tamponi a tutti e identificare i positivi, ho fatto richiesta al comune di poterla utilizzare: lì ci abbiamo trasferito i negativi, isolati con un gruppo di lavoro che assisteva solo loro mentre noi sanificavamo la struttura madre. Dopo questa operazione abbiamo riportato i negativi nella Rsa, in ambienti sani e separati dall’area Covid. Ora i positivi sono solo due.
Un lavoro encomiabile.
Un percorso minuzioso. Durante l’emergenza quasi per gioco ho stilato una sorta di documento linea guida chiamato “Stand Up Familia Nova” e ho dato una copia a ognuno dei 50 operatori. Questo perché nel momento di massima emergenza i ritmi erano assurdi, e volevo far capire a tutti in che fase eravamo e in che direzione stavamo andando, per cosa insomma ci stavamo spaccando la schiena. Il documento spiegava fase per fase quello che stavamo facendo e quale sarebbe stato il passaggio successivo. Questo ha aiutato tutti ad andare avanti.
Quali sono state le situazioni più difficili da gestire a livello emotivo?
Quando vedevi peggiorare gli anziani nell’arco di 20 minuti senza poter fare nulla, senza sapere se il 118 avrebbe fatto qualcosa. Persone che dopo anni sono parte della tua famiglia. Ricordo una conversazione con un medico che mi diceva: “In ospedale non c’è posto, ma se l’ospite fosse un tuo caro lo lasceresti su una barella, in una corsia, senza che nessuno possa far nulla, o lo terresti nella Rsa dove almeno potete garantire la vostra presenza?” Mi viene la pelle d’oca a ricordarlo. Essendo una struttura che non ha presenza medica H24 avevamo limitazioni. A un certo grado di assistenza non potevamo più erogare alcun servizio. L’insufficienza respiratoria arrivava a percentuali che non erano gestibili. Crisi respiratorie che si presentavano una dopo l’altra, 40 nell’arco della stessa settimana, tra invii in pronto soccorso e decessi. Finiva un’urgenza e ne iniziava un’altra, come se fossimo un vero ospedale, ma una Rsa non è un Pronto Soccorso o una rianimazione pronta a gestire l’urgenza.
Vi consideravano il reparto di un ospedale senza che lo foste.
Sì, parliamo di una realtà che ha solo un’assistenza infermieristica diurna, con l’infermiere che copre la fascia oraria dalle 7 del mattino alle 9 della sera. E in questa pandemia i medici curanti, quelli che hanno in carico i vari anziani e che normalmente fanno visite a domicilio, avevano paura di venire in struttura. Anche per questo sono stato costretto ad alzare un polverone. I medici non venivano, il servizio sanitario non ci aiutava, avevamo casi critici d’emergenza senza avere strumenti per affrontarli. Avevo la responsabilità etica di espormi. Da quel momento è cambiato tutto.
E vi siete trasformati in un Covid Hospital.
A marzo abbiamo avuto un carico di 200 bombole di ossigeno liquido quando normalmente ne utilizziamo 18 o 19. Parliamo di un numero estremo, per nulla paragonabile al servizio che eroghiamo normalmente. Nel momento in cui ci hanno detto di trattare tutti come positivi ci siamo trasformati in un Covid Hospital. Ma questa chiave di lettura ci ha permesso di agire con prudenza nel corso di tutta l’emergenza: quando abbiamo potuto creare il reparto guariti e il reparto Covid, ho dato come linea guida quella di considerare tutti come positivi, mantenendo il distanziamento, mettendo i DPI. Così quando abbiamo avuto il positivo nel reparto dei “sani”, abbiamo dovuto isolare solo lui, non è avvenuto come in altre Rsa, dove un positivo era stato in contatto con tutti gli altri senza misure di sicurezza, contagiando gli altri.
A un certo punto dell’emergenza il governatore delle Marche Luca Ceriscioli ha accusato le Rsa di essere responsabili di aver diffuso il virus in Regione. Tu non l’hai presa bene.
Una delle cose più difficili è stata riuscire a gestire un personale stanco e intimorito. Era molto facile che un operatore alzasse la mano e andasse a casa. Con tanti positivi il rischio era alto, e proprio nel momento in cui si cercava di far squadra e vincere la paura, è uscita la dichiarazione del governatore che dava colpa del contagio alla gestione di queste Rsa. Diceva che facevamo le feste di carnevale dentro le strutture. La stanchezza e l’impulsività mi ha portato a rispondere in maniere focosa. Ma tutto in un contesto in cui la dichiarazione era troppo accusatoria verso realtà come la nostra. Uno scarica barile in un momento in cui le mancanze del Sistema Sanitario erano enormi.
Le famiglie degli anziani come si sono rivolte a voi? In altre strutture i parenti hanno incolpato il personale delle Rsa dei troppi silenzi e di aver mentito sullo stato di salute degli ospiti.
Abbiamo avuto la prontezza di tenere i familiari informati con video messaggi su un gruppo whatsapp creato apposta, un calendario di video chiamate per mettere in contatto anziani e parenti, persone che ancora oggi non vedono i propri cari da tre mesi, ma questo ha portato ad avere collaborazione da parte loro quasi sempre.
La tua città, Senigallia, ti ha dato il riconoscimento di “sportivo dell’anno”, ma in questi due mesi ti sei distinto in un altro campo, quello sanitario. Forse usando lo stesso spirito?
Quando si è scatenata la pandemia i campionati di tutti gli sport si sono fermati, mi hanno detto infatti che sono passato da un campo all’altro. Diciamo che quello che lo sport mi ha infuso in questi anni l’ho messo in pratica, le chiavi giuste per aprire le porte erano quelle di creare un buon spirito di squadra a livello lavorativo, tutte cose che il basket mi ha insegnato e che ho trasmesso al personale della residenza, ed ha pagato.
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