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    La separazione dei poteri in Italia e le indagini sull’omicidio Regeni: una lezione per Al Sisi, una lezione per tutti

    Credit: ansa foto

    Il presidente egiziano negli anni ha provato a cambiare il destino delle indagini sullo scottante dossier Regeni facendo leva sui rapporti diplomatici ed economici tra Italia ed Egitto, pensando di poter interferire nei rapporti tra magistratura e politica. La Procura di Roma ha dimostrato che in Italia le cose funzionano diversamente

    Di Lara Tomasetta
    Pubblicato il 16 Apr. 2021 alle 11:25 Aggiornato il 16 Apr. 2021 alle 11:28

    Nel 2019, il Parlamento egiziano ha approvato a grande maggioranza alcune modifiche alla Costituzione per permettere al presidente Abdel Fattah Al Sisi di rimanere in carica fino al 2030 e di estendere il suo controllo sul potere giudiziario. Le modifiche sono state votate in un referendum nazionale il cui esito era scontato.

    In generale, le nuove misure rafforzano ancora di più il potere autoritario di Al Sisi. Dal 2013, dopo il colpo di stato dell’esercito che destituì il presidente eletto Mohammed Morsi, leader dei Fratelli Musulmani, i militari hanno perseguito e arrestato i leader dell’opposizione liberale e di sinistra, oltre che i gruppi islamisti come i Fratelli Musulmani. Secondo il giornalista Declan Walsh del New York Times, il regime di Al Sisi è diventato ancora più autoritario di quello imposto in Egitto da Hosni Mubarak per tre decenni, e che finì a seguito delle proteste della cosiddetta “primavera araba”. La distinzione tra i poteri è – nel paese delle sparizioni forzate, arresti e torture – inesistente. La commistione tra potere militare, giudiziario e politico è tale da violare in modo consistente i diritti umani, privando i cittadini di giusti processi e del diritto di espressione.

    In Italia, per fortuna, le cose sembrano ancora molto diverse. Come noto, il sistema politico italiano è organizzato secondo il principio di separazione dei poteri: il potere legislativo è attribuito al Parlamento, al governo spetta il potere esecutivo, mentre la magistratura, indipendente dall’esecutivo e dal potere legislativo, esercita invece il potere giudiziario.

    Il presidente egiziano ha forse sottovalutato questo aspetto, perché negli anni ha provato a cambiare il destino delle indagini sullo scottante dossier Regeni facendo leva sui rapporti diplomatici ed economici tra Italia ed Egitto. Non senza una buona dose di incoraggiamento da parte dell’Italia, sia ben chiaro. Ma l’iniziale convinzione che il silenzio sulla morte di Giulio Regeni potesse essere “contrattabile” si è dovuta scontrare con la realtà dei fatti.

    Lo ha dimostrato l’inscalfibile e instacabile lavoro della procura di Roma che, nonostante depistaggi e bugie, è riuscita comunque ad arrivare a dei nomi da iscrivere sul registro degli indagati come potenziali responsabili di quell’efferato omicidio che a gennaio del 2016 segnò la storia italiana. Che la verità sulla morte di Giulio non sia in vendita lo ha dimostrato il fatto che le appetibili commesse con l’Egitto non hanno interferito con il lavoro dei magistrati. Lo ha dimostrato, infine, il fatto che nonostante una debole diplomazia italiana nei confronti della controparte egiziana, società civile e liberi cittadini non hanno mai smesso, in 5 anni, di chiedere verità e giustizia.

    Ma facciamo un passo indietro e analizziamo, concretamente, i fatti e i numeri. Nel 2016, anno della morte di Giulio, l’export di armi Italia-Egitto subisce una violenta frenata: dai 37,6 milioni di euro precipita a soli 7,1 milioni. Cosa accadde? Le relazioni diplomatiche si raffreddarono nelle settimane seguenti il ritrovamento del corpo di Giulio e con il ritiro dell’ambasciatore italiano dal Cairo – avvenuto l’8 aprile 2016 – il gelo fu totale.


    L’Italia chiedeva a gran voce che l’uccisione di quel giovane ricercatore non restasse impunita e che i colpevoli, di qualunque grado, venissero individuati. Ma la politica, ben presto, modificò la sua posizione. E a una verità senza compromessi si affacciò quella mediata dalla real politik, espressione restituita troppe volte come odiosa giustificazione per le non-scelte di questo o quel governo nei confronti dell’Egitto. Il manifesto di tutto questo furono le parole dell’allora ministro degli Esteri Angelino Alfano: “L’Egitto è partner ineludibile dell’Italia esattamente come l’Italia è partner ineludibile dell’Egitto”. Lo dichiarava nella sua informativa davanti alle commissioni Esteri di Camera e Senato riunite a Montecitorio, dopo la decisione del governo di rimandare al Cairo il nostro ambasciatore.

    Dopo nemmeno un anno, sul piano dei rapporti diplomatici tornava un’armonia perfetta: incontri bilaterali sempre più fitti, forniture di armi, formazione, scambi commerciali ai massimi livelli. Al termine di ogni incontro, ovviamente il rito ipocrita del “ho ricordato al mio interlocutore la vicenda di Giulio Regeni”. Forniture di armi, appunto, che dal 2017 in poi subiscono un’incredibile impennata.

    Il rapporto di Rete Disarmo ribadisce la “normalità” del business militare: l’Egitto è il primo paese al mondo per acquisto di armi italiane con un boom senza precedenti. Nel 2018 erano state autorizzate licenze per 69 milioni di euro, con il Cairo terzo in classifica dei paesi extra Ue e decimo in via generale. Nel 2016 ci si fermava a 7,1.In appena quattro anni il valore dell’export militare italiano verso il regime di Al Sisi è invece centuplicato. Tra le vendite che spiegano l’ultimo valore, ci sono 32 elicotteri: “Lo scrive la stessa Presidenza del Consiglio. Di questi 24 sarebbero Aw149 e il resto Aw189, elicotteri per operazioni di search&rescue, ma che possono anche trasportare truppe ed essere armati. Se sono per uso civile, allora perché chiedere l’autorizzazione militare?”. Elicotteri Leonardo, l’azienda italiana che li produce.

    Precedentemente le nostre esportazioni erano molto più contenute, negli ultimi anni abbiamo assistito a una crescita esponenziale arrivando a 871 milioni nel 2019 e nel 2020 addirittura abbiamo avviato contratti con l’Egitto per cifre incredibili: affari tra i 3 e gli 11 miliardi di euro per la fornitura di vari sistemi d’arma.

    E arriviamo così ai giorni nostri e alla maxi commessa che ha portato in orbita il valore dell’export italiano verso l’Egitto: la “commessa del secolo”. La commessa contiene l’arsenale bellico del declamato made in Italy: due fregate multiruolo Fremm, originariamente destinate alla Marina miliare italiana (la Spartaco Schergat e la Emilio Bianchi), ma anche altre quattro navi e 20 pattugliatori (che potrebbero essere costruiti nei cantieri egiziani), 24 caccia multiruolo Eurofighter e altrettanti aerei addestratori M346. Un contratto, il maggiore mai rilasciato dall’Italia dal secondo dopoguerra, che farà dell’Egitto il principale acquirente di sistemi militari italiani. Qui abbiamo spiegato le possibili violazioni della legge 185 del 1990. Pochi giorni fa, anche la seconda fregata è partita – nell’imbarazzante silenzio delle istituzioni – alla volta dell’Egitto.

    Ma cosa c’entra tutto questo con la Procura di Roma e le indagini? Nulla. Ed è proprio questo che il presidente Al Sisi ha imparato tardi a capire. La ripresa delle relazioni diplomatiche, i viaggi, le visite, i grossi accordi economici non hanno potuto fermare le indagini. La politica e i ministri che hanno sottoscritto gli accordi, che hanno stretto le mani e che hanno lasciato soli i genitori di Giulio, sono dovuti restare a guardare mentre la verità – a fatica – veniva fuori. In un silenzio imbarazzante.

    Ed eccole le prime verità: il prossimo 29 aprile rischieranno di finire a processo il generale Sabir Tariq, i colonnelli Usham Helmi e Athar Kamel Mohamed Ibrahim e Magdi Ibrahim Abdelal Sharif. Sono tutti accusati di sequestro di persona pluriaggravato, mentre solo nei confronti di Sharif il procuratore Michele Prestipino e il sostituto Sergio Colaiocco ipotizzano anche il concorso in lesioni personali aggravate e in omicidio aggravato.

    Le prove raccolte dagli uomini del Ros e dello Sco hanno permesso alla procura di richiedere il rinvio a giudizio lo scorso gennaio. E dopo la diffusione della notizia, una decina di persone hanno deciso di collaborare con gli inquirenti. Tra queste solo tre testimonianze sono ritenute attendibili perché avrebbero fornito nuovi elementi compatibili con fatti già noti.

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