Roma, 1 settembre 2021. Vorrei avere quella stoffa del cronista da poter dire che sto andando a Milano solo per verificare questa faccenda del Green Pass da oggi obbligatorio sui treni a lunga percorrenza.
Ma non è così, il viaggio è previsto da tempo e fin dal risveglio i tg mi danno da pensare: forse i No-vax creeranno disagi, presidieranno le stazioni. Rimango in contemplazione assonnata degli aggiornamenti e arriva la notizia che il ministro Lamorgese ha disposto perché non ci siano disagi. Staremo a vedere. Guardo l’ora e mi preparo. La metro è deserta. Che bella sensazione. Ripensandoci, che brutta sensazione. Poi Roma Termini. Il treno per Milano Centrale è già al binario, la scritta non lo ufficializza ancora ma è quello. E salgo.
La partenza è in orario e i posti sfalsati, io qui, il mio dirimpettaio di là. Siamo tutti con la testa sul telefono per capire se ci saranno ritardi, poi l’altoparlante ne annuncia uno per la non meglio precisata presenza di “persone sulla linea gialla (sic.) che hanno costretto alla scelta di binari alternativi”.
Praticamente viaggiamo su quelli delle tratte regionali, dovremmo andare a 200 kmh, andiamo a 90. A un certo punto, con un coupe de theatre, arriva il controllore che si produce nel suo cavallo di battaglia “Buongiornoooo. Bigliettooo”. L’autoeco è previsto dal contratto nazionale.
Provvedo a esibire e mi produco anche nell’ostentazione del Green Pass, così come mi viene chiesto. Ma un attimo prima che il controllore esca dalla mia vista e raggiunga Ron, quello di Ron “vorrei incontrarti fra cent’anni” che viaggia nel sedile dopo il mio, sono attraversato da una curiosità irreprimibile e chiedo, al controllore che sta allontanandosi, portando la voce “Scusi, ma se uno il Green Pass non ce l’ha… che succede?”. E scatta il panico.
Il controllore si blocca, si gira, mi fissa, si alza il berretto come in un film di Frank Capra, prende fiato, emette dei lunghi “Eeeh” e poi sibila un impercettibile “Niente”. “Come?”, faccio io. E lui “Niente, cioè… allora… il discorso è questo… niente. Non… non possiamo… non ci hanno detto… e noi…”. E qui si produce in un epilogo che spiega perché Woody Allen ha di noi l’idea di un popolo che gira vestito come negli anni ‘40, e dice “Meglio non farsi queste domande”. Poi, si dilegua e va incontro al suo destino. Cioè, Ron.
E io rimango a guardarlo e a pensare “Meglio non farsi queste domande”. Provo una sensazione di freddo, di vulnerabilità, di Italia colabrodo. Vorrei fare cose, dire cose. Dovrei intervenire, dare il mio apporto e cambiare tutto… ma l’occhio mi cade sullo schermo in alto, al centro della corsia: i minuti di ritardo non sono più 40, sono 10. Solo 10.
Sono felice, sono sollevato e posso riprendere a leggere il romanzetto che mi ero portato. Ho la sensazione di qualcosa che mi stava turbando ma non saprei dire che. Sono Italiano, siamo gente che vive di approssimazione. E appena abbasso gli occhi, i minuti di ritardo diventano 13. Va bene, tanto il mantra è uno solo “Chi se ne frega?”. Mi adeguo, mi avvilisco, e mi butto sul capitolo uno. Mi domando se il controllore avrà riconosciuto Ron. Chissà.