Carmen Aragoni sta per compiere 57 anni, ma non ha mai conosciuto sua madre. Non sa chi sia. Sa di essere nata nell’ospedale San Giovanni di Dio, a Cagliari; di essere stata battezzata poche ore dopo essere venuta al mondo e, a distanza di soli sei giorni, di essere stata trasferita in un brefotrofio. Sua mamma non l’ha voluta con sé.
Carmen cerca le proprie origini biologiche, e lo fa attraverso un post su Facebook, ma non è sola. Come lei, secondo i dati raccolti dal Comitato nazionale per il diritto alle origini biologiche, ci sono circa 400mila cittadini italiani, inclusi quelli all’estero, alla ricerca della madre biologica. Il percorso, però, è difficilissimo.
Nata il 28 marzo 1943 a Trieste «da una donna che non consente di essere nominata» – così riporta l’atto di nascita – Anita è stata accolta in un brefotrofio e solo all’età di sei anni, con una decisione del giudice tutelare del 10 ottobre 1949, è stata affiliata ai coniugi Godelli. Sarà questo il suo nuovo cognome.
A dieci anni, Anita scopre di non essere la figlia biologica dei suoi genitori. Chiede loro di poter conoscere le sue origini, ma non otterrà mai una risposta. Poi, la scoperta: una bambina che vive nel suo stesso paese, nata nel suo stesso giorno, era stata abbandonata e in seguito affiliata a un’altra famiglia. Anita sospetta possa trattarsi di una sorella gemella. Ma i genitori adottivi delle due bambine impediscono ogni contatto fra loro.
Anita dovrà spegnere 69 candeline, prima di vedersi riconosciuto il diritto di conoscere le proprie origini biologiche, grazie a un ricorso presentato fuori dai confini italiani. È il 25 settembre del 2012, quando la Corte europea per i diritti umani le dà ragione, promulgando una sentenza di condanna nei confronti dell’Italia: la legge 184 del 1983, che vieta di conoscere l’identità della madre biologica se questa, lasciando il proprio neonato all’adozione, ha chiesto di restare segreta, viola l’articolo 8 della Convenzione europea sui diritti umani (Cedu), cioè il diritto al rispetto della vita privata familiare. Secondo la Corte europea, infatti, c’è uno squilibrio nella legislazione italiana, che tutela solo il diritto all’anonimato della madre e non dà alcuna possibilità al bambino adottato e non riconosciuto alla nascita di chiedere sia l’accesso a informazioni non identificanti sulle sue origini, sia la reversibilità del segreto. L’effetto di questa condanna arriverà a distanza di un anno.
Nel 2013, la Corte costituzionale riconosce finalmente il diritto del bambino di conoscere le proprie origini biologiche e chiede espressamente all’Italia di promulgare una legge specifica. Una prima proposta era già stata avanzata nel 2008, poi, di nuovo a inizio del 2014. A distanza di otto anni, quel disegno di legge è fermo al Senato. Nel frattempo, una sentenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione del 2017 ha consentito ai figli non riconosciuti alla nascita di presentare al Tribunale per i minorenni un interpello riservato alla madre per capire se sussiste la volontà della donna di mantenere o revocare l’anonimato, ma l’assenza di una normativa di riferimento, pone tutt’ora problemi di interpretazione. È soltanto con questa legge, che l’Italia si potrebbe allineare a tutti gli altri Paesi europei ed extra europei in cui una norma di questo tipo è in vigore già da tempo. Lo scorso gennaio avrebbero dovuto ripartire le audizioni al Senato, ma, per l’ennesima volta, sono state rinviate a data da destinarsi per questioni più urgenti.
Grazie alla sentenza del 2017, oggi, un giovane che scopre di essere stato adottato, dovrà aver compiuto i 25 anni per accedere alle informazioni sull’identità dei genitori naturali e sulle sue origini, presentando un’istanza al Tribunale per i minorenni del luogo di residenza. «Nei tribunali maggiori c’è una sostanziale uniformità nella ricerca delle origini. Mi riferisco a Palermo, Firenze, Napoli, Roma, Milano, Bologna, Bari sono tutti lungo la stessa linea. Anche i tribunali più piccoli, come Matera, Lecce e Taranto, vanno alla ricerca delle origini. Non mi risulta una resistenza, è che a volte non ci si rende conto dei tempi. Questa attività di cui vi sto parlando avviene, per esempio, in un certo mese di un certo anno. E da quel momento, l’attività che viene svolta è quella di ricerca da parte della polizia giudiziaria, che naturalmente può durare qualche mese», spiega Riccardo Greco, presidente del Tribunale per i minorenni di Bari.La polizia giudiziaria si mette alla ricerca di tutto quello che è possibile trovare, partendo dagli atti del brefotrofio, se ci sono, alla ricerca del certificato di assistenza al parto. A volte, alcuni ospedali, pur obbligati a non indicare in alcun modo il nome della madre partoriente che dichiara di mantenere l’anonimato, a causa di errori burocratici lasciano qualche traccia e si riesce a risalire al nome della madre. Il problema è cosa sia accaduto, nel corso degli anni, a quella donna. Potrebbe infatti aver ricostruito la propria vita, avere un coniuge o dei figli all’oscuro di tutto: «L’approccio deve essere necessariamente delicato. La notifica della convocazione viene rimessa da noi e il contatto avviene con i servizi sociali. Nella lettera di convocazione non si specifica la ragione, ma si indica essenzialmente questioni di interesse, una formula generica. Fatta la convocazione, si sente cosa la signora ha intenzione di dire», precisa Greco.
Lo stesso tribunale può, inoltre, autorizzare coloro che abbiano raggiunto la maggiore età solo “se sussistono gravi e comprovati motivi attinenti alla sua salute psico-fisica”, come nei casi relativi a malattie o ricerche genetiche. Tuttavia, la stessa legge 149 del 2001 ha ribadito la prevalenza della scelta del genitore di preservare l’anonimato rispetto al diritto alla conoscenza da parte del figlio, nel caso in cui quest’ultimo non sia stato riconosciuto alla nascita prima di essere dato in adozione, mantenendo quanto previsto dalla più arcaica legge del 1983.
Un caso emblematico è la storia di Daniela Molinari, infermiera originaria di Como, colpita da un cancro maligno al seno resistente alle cure tradizionali, la quale ha prima lanciato un appello su un giornale locale e, in seguito, ha avanzato l’istanza di interpello presso il Tribunale per i minorenni di Milano. La ricerca della madre era necessaria ai fini della mappatura genetica che le avrebbe consentito di accedere a una terapia sperimentale per curarsi. Dopo il rifiuto della donna, Daniela Molinari ha lanciato un accorato appello attraverso il programma televisivo Chi l’ha visto?, circa un anno fa, per convincerla a cambiare idea. La madre biologica ha allora acconsentito, pur mantenendo l’anonimato al prelievo di sangue. Daniela sarebbe dovuta partire per gli Stati Uniti, ma a causa di un peggioramento improvviso ha intrapreso la terapia in Italia. Oggi è arrivata alla settima somministrazione della sua cura, ma è subentrato un effetto collaterale molto grave che le ha provocato un crollo. Proprio per questo, lo scorso 8 giugno, è tornata a chiedere aiuto al programma di Rai 3 per lanciare un appello al padre naturale. L’uomo era stato raggiunto telefonicamente da Daniela qualche giorno prima, negando però che potesse essere lui il padre, nonostante la paternità fosse stata comprovata al 99 per cento da una prova del Dna: «Adesso può vedermi in faccia, sono quella Daniela che le ha telefonato qualche giorno fa. Volevo dirle che non ho bisogno di niente da lei, non voglio disturbare né lei né la sua famiglia. Sono solo malata e se lei fosse veramente mio padre come il Dna lascia pensare, una provetta del suo sangue potrebbe aiutarmi a perfezionare la cura che già sto facendo e solo per questo che mi sono permessa di disturbarla», ha spiegato la donna.
Già molto tempo prima che la storia di Daniela diventasse un caso mediatico, le associazioni di figli adottivi si sono mobilitate contro quella che hanno definito «legge dei cento anni», cioè l’articolo 93 del decreto legislativo 196 del 2003, che non consente a un figlio adottivo non riconosciuto alla nascita di accedere alle informazioni sulle proprie origini biologiche fino al compimento del centesimo anno di età, ovvero a distanza di un secolo dalla formazione del certificato di nascita contenente la dichiarazione di anonimato. Verosimilmente mai. L’unico caso in cui questa condanna centenaria decade è in caso di decesso della madre naturale al momento dell’interpello da parte del giudice, per capire se sia disposta o meno a togliere l’anonimato.
Nel percorso di graduale apertura nell’accesso alle informazioni sulle origini biologiche avvenuto negli ultimi anni, i social media hanno giocato un ruolo fondamentale, dando nuove opportunità alle persone che tentano in ogni modo di colmare il senso di vuoto e incompletezza che li accompagna dalla nascita. Facebook, Twitter e Instagram hanno avuto un forte impatto sulla circolazione delle informazioni inerenti alla ricerca, dando vita a un percorso esterno alle aule dei tribunali. Talvolta, ledendo anche la riservatezza personale delle persone adottate e non solo.
Tuttavia, secondo Luciano Trovato, presidente del Tribunale per i minorenni di Firenze, il fatto che attraverso i social le persone sappiano “tutto” non sarebbe da chiamare «rischio, è la realtà», ma il presidente del Tribunale per i minorenni di Firenze spiega pure che in alcuni casi le ricerche vengono attivate dalla famiglia di origine, a volte in modo disturbante. «Sono casi rari, ma quelli che ci sono capitati ci hanno indotto a prendere provvedimenti di occultamento dei dati. Siamo arrivati a mettere a punto una procedura di attribuzione di identità fittizia», dice Trovato, che riporta poi un «caso esemplare». Quello di un ragazzino che è stato allontanato e dato in affidamento a rischio giuridico a una famiglia. Gli affidatari, dediti in modo assoluto al ragazzino, decidono di iscriverlo a uno sport. Dopo anni, semplicemente facendo una ricerca banalissima con Google, era stato sufficiente digitare il cognome del ragazzino per trovare la squadra cui era stato iscritto. Siccome la squadra era ovviamente di un territorio individuato, era bastata questa piccola traccia per andare sul territorio e fare delle ricerche per rintracciarlo. «In questo caso non c’era alcuna ansia da parte del ragazzino di conoscere la famiglia di origine, ma queste iniziative hanno provocato in lui uno squilibrio, perché non era ancora pronto a confrontarsi con una realtà così difficile come quella di una famiglia da cui un tribunale dice che sei stato abbandonato e che poi ti viene a dire che tu sei sempre stato amato e che è il tribunale ad avere sbagliato», conclude Trovato.
Se da un lato, però, i social possono provocare uno squilibrio psicologico in soggetti coinvolti in storie simili, dall’altro, il Comitato nazionale per il diritto alle origini biologiche, grazie a piattaforme come Facebook è riuscito a crescere e ad aiutare molte più persone che avevano bisogno di comprendere anche solo come procedere per poter depositare l’istanza in tribunale. Come racconta, infatti, Emilia Rosati, co-fondatrice del Comitato insieme ad Anna Arecchia, «l’aspetto mediatico legato ai social ha dato soprattutto la possibilità alle persone di confrontarsi e di uscire dal tabù di quegli anni. Nessuno si esponeva, era una vergogna. Era come ammettere un minus. Nel momento in cui abbiamo cominciato a parlarci e confrontarci sui social c’è stata, a un primo sguardo, un qualcosa quasi di miracoloso. Persone che per cinquanta, sessant’anni non avevano detto niente neanche ai figli, hanno cominciato a parlarne tra loro e questo ha portato a uno sdoganamento di questo vissuto».
Anche Monica Rossi, co-fondatrice dell’Associazione figli adottivi e genitori naturali, parla positivamente dell’“aiuto” che i social hanno dato a queste persone: «Da Facebook e Twitter fino a Instagram, sicuramente possiamo arrivare a più persone. Abbiamo dovuto anche adeguare il messaggio, per cui fare video più di impatto e più brevi. Il rischio è quello di abbassare troppo il livello».
L’altra questione posta da Rosati è che anche quando le storie si trasformano in “casi mediatici”, arrivando nei programmi televisivi, «c’è la possibilità di fare un appello, però non viene mai detto che c’è una legge che non cambia e che si può fare istanza al tribunale grazie alla magistratura, che nel 2013 con una sentenza della Corte costituzionale ha chiesto al legislatore di cambiare la legge».
È esattamente quanto accaduto con la storia di Daniela Molinari, tornata a Chi l’ha visto? a distanza di un anno. O ancora quella di Maria Elena Lombardo, la ragazza genovese di 24 anni, che ha lanciato un appello su Tik Tok, con la speranza di ritrovare e conoscere la propria mamma biologica, che l’ha partorita a Imperia.
Anche Mari Concas dopo un’attesa di 33 anni ha trovato il coraggio di esporsi per ricostruire la sua storia d’origine, quella di cui la memoria non lascia traccia. Il 31 maggio ha lanciato un appello su Facebook, riportando le poche informazioni che, racconta a TPI, le ha fornito il padre adottivo: «Sono nata il 10 aprile del 1989 nell’ospedale civile di Cagliari e sono stata adottata a un mese dalla nascita.
Dalle poche cose che mi ha detto mio padre, so che alla nascita mi erano stati dati un nome e un cognome, Maristella Marini; e che la mia mamma naturale era molto giovane». Mari non sa altro e a breve presenterà l’istanza al Tribunale per i minorenni della sua città con la speranza di reperire qualche informazione in più. «Ho sempre saputo di essere stata adottata e di conseguenza ho sempre avuto la curiosità di conoscere le mie origini. Ma mi imbarazzava chiedere», dice, spiegando però che dopo essere diventata mamma, sei mesi fa, «mi sono resa conto ancora di più che non conoscere la madre che ti ha dato alla luce, non sapere proprio niente ti dà tristezza, cresci con un vuoto dentro». Ma Mari non è stata abbandonata solo alla nascita, anche la madre adottiva, dopo essersi separata dal padre, è andata via. «Non abbiamo più rapporti da tanto tempo. Il certificato di nascita ce l’ha lei, ma vista la situazione non mi va nemmeno di chiederglielo», conclude Mari.
Scegliere di mettersi alla ricerca delle proprie origini biologiche, dunque, non avviene in un vuoto affettivo e relazionale. Tanto più quando la ricerca non avviene più soltanto offline, ma si sposta nella Rete. «Facebook entra in maniera abbastanza prepotente in due scenari. Il primo è quello in cui l’adottato conosce o ha trovato delle informazioni sui suoi familiari biologici. Facebook in questo caso è un po’ un’anagrafe, perché la ricerca funziona per nome e cognome», afferma Marta Casonato, psicologa, ricercatrice e docente all’Istituto universitario salesiano Torino Rebaudengo. «Il secondo scenario riguarda il caso in cui queste informazioni non ci sono. Quindi si ricorre alle pagine Facebook degli appelli, che sono uno strumento molto potente», perché, come spiega ancora Casonato, una volta che l’appello è pubblico, grazie alle condivisioni di altri utenti, può raggiungere anche contatti esterni alla pagina. Ciò comporta diversi rischi: «C’è un grande scollamento tra la via prevista dalla legge, che ha determinate caratteristiche che sono state pensate per offrire un certo tipo di accompagnamento, e quella del fai-da-te, che ha tutt’altre regole o, spesso, non le ha proprio. I rischi sono connessi a quelle che sono le caratteristiche della comunicazione online, che è immediata. Questo può comportare per un adolescente o un giovane adulto il fatto di trovare delle risposte in maniera veloce. Un tempo che non corrisponde a quanto umanamente necessario per affrontare e metabolizzare determinati aspetti a livello psicologico», conclude Casonato. I social, infatti, forniscono spesso informazioni private a chiunque legga un appello o a un parente che possa riconoscersi in quella storia. È anche per questo che se la ricerca delle origini biologiche venisse definita da una legge ad hoc, queste persone potrebbero essere maggiormente tutelate e supportate in un percorso che si presenta, fin dal principio, molto doloroso.
*Ha collaborato Michele Valente.