Bocche coperte, volti per metà, nascosti, occhi spalancati, in perenne allerta. Abbiamo paura. C’è un nemico: “il Covid”. Il panico da virus ha davvero scavato dentro ognuno di noi, seppur in modo diverso, ha agito su tutti.
Dal momento in cui la peste aveva chiuso le porte della città, non erano più vissuti che nella separazione, erano stati tagliati fuori dal calore umano che fa tutto dimenticare. Con gradazioni diverse, in tutti gli angoli della città, uomini e donne avevano aspirato a un ricongiungimento che non era, per tutti, della stessa natura, ma che, per tutti, era egualmente impossibile.
(Albert Camus, La peste)
La psicologia ai tempi del coronavirus, fase 2, ovvero la ripartenza. Dalla quarantena stiamo uscendo offesi, spaventati, disorganizzati, confusi o, forse, corazzati e coraggiosi. Chi siamo? Come siamo cambiati? Cosa ci attende? Non abbiamo risposte, solo domande. La luce, finalmente, ma anche il buio. Ecco allora il caos, dentro e fuori di noi. È l’onda che sale: la minaccia della perdita, e poi ansia, angoscia, inquietudine. Talvolta, smania. La fretta di ricominciare.
Quali e quanti stati di animo ci attraversano in questi giorni? Il mondo è cambiato. Viviamo lo smarrimento metropolitano, un deserto distanziante/iper-connesso che promette di supplire, mediante surrogati e tecnologie, l’affetto e il contatto. Ma, lo sappiamo: è solo un’illusione La nostra base sicura, le nostre relazioni, il nostro ambiente ci hanno fatti sentire rifiutati.
Un famoso studio etologico condotto da Harlow (1958) relativo al comportamento di attaccamento dei primati, riferimento importante nell’ambito della psicologia, dimostrava la natura innata del bisogno di vicinanza e sicurezza relazionale: cuccioli di scimmia, messi di fronte alla possibilità di scegliere fra un surrogato metallico, che erogava loro cibo, e uno costituito da un panno di stoffa, che richiamava calore e protezione, si rivolgevano a quest’ultimo e protestavano se sottratti al loro rifugio.
Tutti abbiamo una spinta innata all’attaccamento, alla relazione, abbiamo bisogno di cura e affetto, prossimità e vicinanza. Sì, siamo autonomi, progressisti, avanzati, moderni, ma rimaniamo conservatori. E, seppure con resistenza, sentiamo e riconosciamo i nostri bisogni affettivi. Quindi soffriamo. E ora cosa accade? Quello che un tempo ci rassicurava è divenuto, ad un tratto proibito, potenzialmente pericoloso.
Anche quei “compensi” che, di solito, ci consolano: uscite, passeggiate, aperitivi, cene, shopping, sono venuti e vengono a mancare. Sembra quasi che siamo stati puniti come si faceva nell’antica Grecia con l’isolamento e l’ostracismo sociale. Speravamo che il 4 maggio segnasse la vera uscita dal tunnel della costrizione pandemica e, invece, basta uscire di casa per respirare un’aria ancora asfittica e spaventevole, forse ancora contaminante, al limite con l’agorafobia.
I timori e le paure non solo rimangono, ma si dilatano nelle piazze vuote, in uno scenario metropolitano quasi apocalittico. Basta fare un giro per le città per vedere una società trasformata. Assistiamo ad uno un nuovo scenario: una moltitudine di mascherine a passeggio che fingono di procacciarsi cibo pur di assaporare un senso di normalità – un sapore di quotidianità. In realtà, queste mascherine, oltre che proteggere, nascondono smorfie di dolore, disgusto e stimolano la paura, ricordando costantemente che siamo in una situazione di emergenza forse “senza via di fuga”. Ci sentiamo superstiti.
Inoltre, è bene chiedersi come affronteranno questa situazione le persone già vulnerabili alla psicopatologia. Rafforzate o ulteriormente fragili? E coloro che in questo periodo hanno offerto il supporto medico, sanitario-assistenziale, psicologico come affronteranno questa nuova realtà? Avranno ancora risorse a disposizione oppure il loro serbatoio di resilienza sta per terminare? Che effetti avrà l’iper immersione virtuale, a cui siamo stati sottoposti? Arriverà il momento in cui il diritto di una mancata iper connessione sarà garantito? Il senso di aggregazione pandemico, la solidarietà, la gentilezza, sono stati davvero fattori protettivi?
Sicuramente questa quarantena ha favorito fenomeni di riflessione individuali, sociali ed affettivi. Forse chi ha avuto la possibilità di condividere le difficoltà con i propri cari, oppure è riuscito a dare un significato potenzialmente positivo a questo periodo, avrà maggiori possibilità di sviluppare una sorta di “immunità psicologica” rispetto a chi ha vissuto questa situazione in vero stato di distanziamento o, peggio, è stato sottoposto a rischi socio-economici e lavorativi.
Sicuramente, nella fase 2, si consuma una nuova frattura, non data dall’irruzione della pandemia, ma dal re-inserimento in una realtà modificata in cui tutti potrebbero avvertire un senso di disorientamento che richiede un frettoloso e anomalo ri-adattamento. Dunque, si assiste quasi ad un paradosso: quella libertà tanto desiderata rischia di diventare un secondo obbligo a cui dobbiamo necessariamente rispondere. Insomma ci troviamo proprio in una sorta de cul- de- sac! Ma come reagiremo veramente a lungo termine a questo post pandemia da un punto di vista psicologico? Saremo evitanti, fobici, distanzianti, ossessivi? Avremo davvero timore e paura di abbracciare gli altri?
Nella pratica clinica, alcuni pazienti raccontano di aver provato maggiore malessere psichico, depressione, tristezza, ansia, noia, rabbia, a causa del distanziamento sociale e dell’isolamento, mentre altri sembrano iniziare solo adesso (in questa seconda fase) ad avere maggiore paura.
Paziente: “Quando tutto era sospeso non pensavo molto ai miei fallimenti. Adesso mi critico, vedo che gli altri ripartano e io sono ancora fermo!”.
Alcuni, nelle loro mura domestiche, si percepivano protetti, legittimati e normalizzati a mettere in atto comportamenti di evitamento e di protezione rispetto alle situazioni ansioso-fobiche e agli scenari temuti. Basti pensare alla fobia sociale e a quanto coloro che ne soffrono si siano sentiti, almeno per un breve periodo, poco sensibili e vulnerabili al giudizio altrui. Pensiamo ai pazienti ossessivi, lontani dai loro timori, senza doversi giudicare in modo critico per la diversità relativa alle loro difficoltà.
Paziente: “Dottore ma se io ora non volessi uscire? Sarei davvero cosi anormale? Io non voglio ritornare lì fuori. A casa in qualche modo mi sentivo protetta, adesso avverto di nuovo quello stato di agitazione per cui sono arrivata qui da lei. Vedere tutti cosi protetti, con le mascherine, i guanti, mi allarma!”.
Terapeuta: “Ma come fino a ieri mi diceva che non vedeva l’ora tornare alla normalità, cosa le fa cambiare idea?”.
Paziente: “Ma dottore a lei questa sembra una normalità? È tutto alterato, tutto diverso!”.
Come affronteranno l’uscita di casa i pazienti ossessivi, in particolare con timori di contaminazione, e come vivranno il tema della responsabilità circa il rischio del contagio? L’iper responsabilità personale (a cui tutti dobbiamo attenerci – “motto attuale”) che tipo d´influenza potrebbe avere? I pensieri – “Cerca di stare attento, controlla la tua sicurezza e quella degli altri; non toccare il carrello senza guanti e poi ricorda che devi buttarli! Devi tenerti a debita distanza dalla cassa” – potrebbero certamente intrudere nella mente in maniera più ricorsiva.
Mai come in questa occasione è possibile osservare e comprendere il funzionamento e i costi esperiti nei disturbi ossessivi da contagio che spesso osserviamo nella pratica clinica: è davvero una fatica funzionare da ossessivo, avvertire che la paura della contaminazione è sempre dietro l’angolo. Trascorrere tutte le ore del giorno a contare, lavare, disinfettare, con a mente la perenne paura di sbagliare, di essere colpevoli e omissivi: “Dicono che il virus rimane sulle superfici: Se avessi toccato per sbaglio qualcosa di contaminato?”.
Forse questo modo di ragionare, volto ad escludere la possibilità di ogni minima probabilità di dubbio, sta diventando un tarlo per noi tutti, una sorta rumore cognitivo – sotterraneo, che richiama la paura e, quindi, la probabilità di un possibile contagio . In generale, in questa seconda fase, ancora siamo tutti esposti e nessuno è immune: prima ci sentivamo minacciati dalla pandemia, adesso siamo tormentati sia dall’incertezza del futuro sia dall’incombenza di dover riorganizzare tutto in fretta, in una condizione temporale poco definita. Ma in realtà avremmo la necessità di ritrovare uno stato imminente di sollievo e benessere percepito.
Quando arriverà il riposo del guerriero, quel tempo dell’elaborazione, che ci consentirà di lasciarci alle spalle il disagio e lo stress che abbiamo vissuto in questi mesi? Tutti vivevamo aspettative di liberazione e, invece, ci si ritrova ancora di fronte ad una rinnovata costrizione, regole poco chiare, una libertà solo apparente, che diventa preoccupazione non solo per la salute, ma anche per il divenire di ciascuno di noi.
È plausibile pensare che possa verificarsi un cambiamento dei nostri valori. Potremmo riscoprire il valore di ciò che è essenziale, ma potremmo confermarci ancora più egoisti. La vera incognita è capire quale e quanto sarà significativo il costo psicologico di tutti questi riadattamenti e di questa esperienza, in senso generale. La nostra memoria porterà con sé alcune tracce, che avranno un impatto. Una cosa appare evidente: l’immunità di gregge dal punto di vista fisico è stata presa in considerazione, ma quella “psichica”, o per meglio dire “il contagio mentale della paura”, potrebbe richiedere una maggiore attenzione in questa seconda fase.
“Atene fu distrutta dalla paura della peste, non dalla peste”
(Tucidide)
Senz’altro dalla psicologia certamente possiamo trarre un insegnamento: pensare alla paura non aiuta, focalizzarsi sugli scenari peggiori, non rassicura e ,al contrario, alimenta l’allarme. Rischiamo di rimanere prigionieri di una spirale chiusa e viziosa di tribolazioni mentali che certo non immunizzano.
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