Nell’opera “Storie”, scritta dall’autore ateniese Tucidide, è riportata nero su bianco una vicenda – la prima secondo le fonti storiografiche – che ci riguarda da vicino e anticipa di oltre duemila anni una dinamica con la quale abbiamo iniziato a familiarizzare su larga scala soltanto da un decennio. Lo storico del V secolo include nella sua opera monumentale una lettera attribuita a Pausania, reggente di Sparta, dal contenuto scandaloso: secondo Tucidide, infatti, il governatore della polis guerriera avrebbe offerto la propria città e addirittura tutta la Grecia al Re di Persia, in cambio della figlia di quest’ultimo. Un caso di alto tradimento particolarmente pruriginoso, poiché compiuto nientemeno che dall’eroe della battaglia di Platea, poi finito a processo e condannato a morte per quella che viene ricordata come la prima fake news della storia. Lo storico Collins English Dictionary ha definito questa locuzione come “espressione dell’anno” nel 2017, proprio in virtù dell’impiego su larga scala che ha seguito le elezioni presidenziali americane. In quel caso l’ex presidente degli Stati Uniti d’America Donald Trump, con l’obiettivo di screditare la stampa in vista dell’appuntamento elettorale, ne ha fatto un ricorso così ampio da favorirne la diffusione a livello globale.
Un anno dopo, nel 2018, il termine è infatti stato utilizzato negli Usa per l’81,3%, in Inghilterra per il 4,2% e con molta meno frequenza nel nostro Paese, dove appena il 40% degli italiani dichiarava di aver sentito almeno una volta questa espressione. Quattro anni dopo, che per le dinamiche velocissime di un mondo globalizzato assomigliano a ere geologiche, il fenomeno ha assunto proporzioni incredibilmente più ampie. A rilevarlo è un sondaggio condotto dall’Istituto Demopolis, in cui si evidenzia come oltre quattro italiani su dieci ritengano di trovarsi di fronte ad almeno una fake news tutti i giorni. Le bufale hanno ulteriormente aggravato la crisi di sfiducia nei confronti dei media, chiamati in soli due anni a informare su una pandemia globale e una guerra alle porte dell’Europa, ma percepiti come frequentemente soggetti a forme di manipolazione. È quanto emerge da una ricerca condotta dal dipartimento di Scienze della Comunicazione dell’Università di Urbino, che ha analizzato il fenomeno rapportandolo alle abitudini degli italiani. Oltre la metà degli intervistati, il 62%, ha dichiarato di nutrire maggiore fiducia nel web, considerato in grado di informare in modo più completo, accurato ed equilibrato rispetto ai media tradizionali come quotidiani, tv e radio (quest’ultima, tra i tre, mantiene il primato di affidabilità secondo gli italiani). Con i nuovi traguardi raggiunti dalla tecnologia, in concomitanza con il boom social network e un’informazione sempre più globalizzata, la problematica ha assunto e continua ad assumere delle proporzioni ogni giorno maggiori arrivando a minacciare non soltanto il settore dei media, ma quello della comunicazione a tutto tondo.
Promuovere storie di valore attraverso i media è il compito degli specialisti di pubbliche relazioni, PR per dirla all’anglosassone, ora alle prese con una duplice sfida: garantire una corretta comunicazione aziendale e proporsi come argine, veicolando contenuti in modo etico, all’esplosione di false notizie. In che modo le fake news stanno cambiando la comunicazione contemporanea? E in che modo i professionisti del settore possono collaborare in modo virtuoso? Lo abbiamo chiesto a Francesca Caon, giornalista, esperta di comunicazione e founder di CAON Public Relations, agenzia specializzata in pubbliche relazioni.
Francesca Caon, che impatto hanno le fake news sul mondo della comunicazione?
L’impatto delle fake news sul panorama della comunicazione è enorme. Lo sviluppo tecnologico dei mezzi di comunicazione, unito alla velocità della notizia e alla possibilità di targetizzare con estrema precisione i messaggi, rappresenta uno strumento incredibile per fare giornalismo e comunicazione. Il rovescio della medaglia, però, è una maggior facilità nel creare a tavolino storie false e renderle popolari attraverso i meccanismi di viralità alla base dei social network. Circoscrivere l’impatto delle fake news all’ambito comunicativo sarebbe infatti un grosso errore. Ci sono due esempi specifici che esemplificano la dinamica esplosiva delle fake news, e riguardano l’annuncio anonimo della morte di Napoleone e i Protocolli dei Savi di Sion. Se la prima bufala fece quasi crollare la borsa di Londra generando un terremoto potenzialmente di carattere internazionale, la seconda ha addirittura segnato una parte importante della storia del ‘900. Falso documentale attribuito al secolo precedente e contenente un presunto piano segreto ordito dal popolo ebraico per attuare la sottomissione del mondo, i Protocolli dei Savi di Sion furono in realtà redatti a tavolino dall’Ochrana, la polizia segreta zarista, per diffondere l’odio verso gli ebrei internamente ai confini dell’allora Impero Russo. L’orribile invenzione servì anche come pretesto per la Germania nazista al fine di giustificare le proprie persecuzioni, poi culminate con la tragedia dell’Olocausto. Conosciute e impiegate da millenni, le fake news hanno trovato ufficializzazione soltanto negli ultimi dieci anni, parallelamente alla diffusione del web e dei social network. Ciò sta influenzando profondamente il modo di fare comunicazione, basti pensare alla sua applicazione politica, economica e addirittura sanitaria, come stiamo sperimentando nell’epoca Covid e del conflitto in Ucraina. Oltre a una destabilizzazione sistematica e strutturale del modo di comunicare tradizionale, le notizie false rischiano di traghettare il mondo in un clima di post-verità, dove non esiste cioè un concetto di realtà valida per tutti. E questo è l’opposto della missione di chi lavora nell’ambito, sempre più delicato, della comunicazione sia privata sia pubblica.
Quale sarà, a tuo avviso, il futuro delle fake news?
Attribuire il propagarsi delle notizie false alla crisi dei mass media è una visione soltanto parziale della realtà. Non è un caso se la loro diffusione risulti maggiore nelle società occidentali e democratiche, dove la libertà di stampa ha alimentato – specialmente negli ultimi decenni – un pluralismo di informazione pressoché totale dove le fake news hanno trovato un terreno particolarmente fertile in cui propagarsi. I rischi sono sotto gli occhi di tutti. L’impatto delle bufale non si limita soltanto a un’influenza attiva nella sfera decisionale del singolo, ma può anche rappresentare un vero e proprio pericolo per la salute pubblica collettiva. Sono in molti a scommettere che, con l’avanzare del progresso tecnologico, il fenomeno diventerà ancora più difficile da arginare o anche solo da individuare. Un caso lampante è quello dei cosiddetti deepfake, basati su una sintesi dell’immagine umana che sfrutta l’intelligenza artificiale per ricrearne aspetto, movenze e voce grazie a un particolare tipo di apprendimento automatico conosciuto come rete antagonista generativa. Tutt’altro sorprendente è che questa tecnica sia stata inizialmente utilizzata per la creazione di video pornografici ritraenti personaggi famosi. Ciononostante, il suo potenziale d’applicazione pressoché infinito pone seri interrogativi sul futuro delle fake news e delle loro conseguenze anche internazionali. Un esempio è quanto rivelato dall’agenza Ukrinform, la prima ad aver riportato la notizia di un deepfake riguardante il sindaco di Kiev Vitaly Klitschko. Convinti di parlare in videoconferenza con il primo cittadino della capitale Ucraina, i sindaci di Berlino e Madrid sono stati ingannati da un articolato falso ideato ad arte per screditare importanti rappresentanti delle istituzioni europee. Una prima proposta per arginare il fenomeno fake news, deepfake inclusi, è arrivata da Bruxelles: l’idea è quella di introdurre sanzioni fino al 6% del fatturato globale delle grandi piattaforme, su tutte Google e Facebook, che non agiscono per tempo consentendo una diffusione virale delle bufale. Tra propaganda di guerra, notizie false in ambito sanitario e un’evoluzione tecnologica che rischia di ingigantire ulteriormente un problema già caratterizzato da proporzioni globali, c’è una sola certezza: le fake news sono qui per restare, e arginarle sarà sempre più difficile senza un piano programmatico in grado di sensibilizzare l’opinione pubblica e generare una nuova credibilità nei media affidabili che ne sono l’antidoto.
In che modo le pubbliche relazioni e una diversa comunicazione possono collaborare per arginare il fenomeno?
I professionisti delle pubbliche relazioni, che lavorano a stretto contatto con i giornalisti, possono rivelarsi dei preziosi alleati quando interpretano il proprio ruolo con etica e mettendosi al servizio dei media. Come PR siamo chiamati ad agire in modo responsabile e autentico, promuovendo modalità di comunicazioni trasparenti e sempre più attente alle problematiche avvertito dai lettori. Questo è possibile attraverso la diffusione di dati verificabili e la presentazione di fonti affidabili, mettendo al primo posto la verità fattuale. Si tratta di un cambiamento già in atto e che ha richiesto ai professionisti della comunicazione un riadattamento integrale, molto più votato alla ricerca di esattezza e dove le esigenze dell’azienda che rappresentiamo combaciano con quelle dei media. Credo sia proprio attraverso questo percorso condiviso che le fake news possano rivelarsi in tutta la propria falsità, e fungere da veri e propri filtri è una delle missioni che abbiamo sposato negli ultimi anni. Così come il ruolo del giornalista, anche il nostro dovrà ampliarsi e assumere un carattere molto più strategico. Oltre a perfezionare i messaggi per ottenere il massimo risultato per le realtà che curiamo, saremo chiamati anche a diffondere i nostri valori all’interno di questo nuovo panorama in continua evoluzione. È d’altronde difficile ipotizzare che le fake news possano mai scomparire del tutto, ma dobbiamo lavorare insieme ai giornalisti per ridurne il più possibile la diffusione e il peso specifico che le bufale attualmente hanno su tutte le frange del tessuto sociale. Come conseguenza, questo riassetto comunicativo spingerà le imprese per essere (più che apparire) maggiormente responsabili sotto il profilo sociale, con l’obiettivo ultimo di trovare sui media non casse di risonanza ma veri e propri partner affidabili con i quali instaurare rapporti efficaci e di beneficio reciproco. Queste nuove dinamiche di interazione tra aziende e professionisti della comunicazione, in definitiva, deve essere il primo passo verso un processo virtuoso a vantaggio di tutti.
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