Giovanni Valentini, hai lavorato al fianco del fondatore di Repubblica per decenni: dopo l’inflazione dei coccodrilli, dei ricordi, delle celebrazioni ti chiedo: come era davvero Eugenio Scalfari? «In primo luogo bisogna dire che non si spiegano la sua figura, la sua forza, il suo carisma, la sua generosa umanità, senza la sua leggerezza».
Cosa intendi?
«Tutto in Scalfari era bilanciato da una grande ironia, anche il narcisismo che lui stesso ammetteva di avere».
Fammi un esempio.
«Vedi, sono piccoli dettagli… Nel 2019, lo chiamai, come di consueto, per fargli gli auguri per il suo compleanno, che cadeva il 6 aprile».
E lui?
«Mi rispose con una battuta. “Ehhh – disse – mi chiami in una data davvero particolare per me”. Io lì per lì rimasi stupito».
Perché?
«Apparentemente non c’era nulla di particolare nel 95esimo compleanno di un uomo, giusto? E invece lui…».
Cosa ti disse?
«Con uno dei suoi sorrisi unici mi rispose: “Caro Giovanni, forse tu ancora non sai che io ho un obiettivo preciso, voglio diventare centenario: dunque, proprio oggi, sto entrando nella seconda metà dell’ultimo decennio del mio secolo”».
Ah ah ah. L’Histoire c’est moi, direbbe madame Bovary.
«C’era tutto lo Scalfari che conoscevo in quella battuta. Da un lato mi diceva che voleva arrivare a 100 anni, come se fosse un obiettivo programmabile che si proponeva, dall’altro mi spiegava che avvicinarsi all’obiettivo per lui era un peso».
Purtroppo sì è fermato a 98 anni.
«Adesso ti racconto un altro aneddoto d’epoca che è la testimonianza di un altro Scalfari».
Vai.
«Eugenio era sempre un uomo galante, elegante, attento ai dettagli nei rapporti interpersonali. E quando ero capo della redazione a Milano veniva a trovarci. Ma una volta che io venni a Roma ad una riunione di capi delle redazioni…».
Cosa accadde?
«Stavamo finendo la riunione dei capi, ma io avevo un impegno e dovevo andare. Mi alzai e accadde una cosa strana».
Cioè?
«Eugenio si alzò, in modo molto plateale e mi disse: “Ti accompagno all’ascensore”».
Bene, no?
«Beh, io ebbi una vertigine, ero stupito, e ti confesso anche lusingato, pensavo: “Eugenio si alza per me, che onore!”. Era davvero un fatto inconsueto».
E poi?
«Lui mi accompagnò fino all’ascensore, senza dire nulla. Ma poi, proprio sulla porta, come se seguisse un suo pensiero mi fece: “A proposito… Posso dire, Giovanni, che sono stato a cena con te?”».
Che significava? Un invito?
«No, il contrario. Anche io rimasi spiazzato per un attimo. Stavo cercando di capire. E a quel punto lui aggiunse: “Tu ormai avrai capito che io sono un concubino!”».
Caspita.
«Mi stava dunque chiedendo di poter dire a Simonetta, che era a cena con me. Mi stava mettendo a parte di un segreto privato, che pure io conoscevo già».
E ti stava chiedendo di essere la sua copertura per l’incontro “bigamo”…
«Con Serena, che poi sarebbe diventata sua moglie. Questo per dire che tutte le vite di Scalfari erano parte della sua personalità. Tutte le sue sfaccettature complesse, il suo narcisismo e la sua generosità, la sua eleganza e i suoi pudori erano Eugenio».
E poi?
«Tutti questi “diversi” Scalfari erano compresi, riassunti e sublimati in uno solo: il genio giornalistico».
Tu sei uno dei pochi superstiti ritratti in quella foto storica, che hanno partecipato alla “fondazione” di La Repubblica.
«Faccio scongiuri, ma purtroppo è vero. E se è per questo aggiungi un dettaglio in più: io sono uno dei pochi, ancora in vita, fra quelli che parteciparono alla genesi di quello straordinario e dirompente giornale».
Intendi i numeri zero?
«Esatto. Pensa che li ho ancora qui, raccolti, tutti e quindici, uno dei reperti più preziosi della mia collezione personale».
Regalami almeno due lampi di memoria.
«Il primo è il tabloid».
Il formato.
«Sì, ma non fu solo un cambiamento di forma. Era la sostanza, l’anima del giornale: all’epoca non esistevano – come sai – altri quotidiani così, in Italia».
Erano ancora i cosiddetti “lenzuoli”.
«Esatto, Eugenio ci spiegava: “Il nostro formato cambia la lunghezza dei pezzi, la leggibilità, la priorità della lettura, il peso dei titoli, lo stesso linguaggio giornalistico”. Ed infatti fu così».
Fantastico.
«Nessuno come lui capiva che nei giornali il format determina l’identità. Ed infatti l’uscita di La Repubblica fu uno choc, una rivoluzione. I colleghi studiavano i primi numeri come se nelle edicole fosse atterrata una navicella ufo».
Ma poi c’era altro.
«Sì, perché a questa si aggiungeva un’altra sua idea fissa. Quella che bisognasse “scavalcare la cronaca”».
Cosa intendi?
«Eugenio ci anticipò entusiasta la prima campagna pubblicitaria del giornale: “Lo slogan sarà questo: il primo settimanale che esce ogni giorno!”».
Spiegalo.
«La lettura, l’interpretazione e la decodificazione degli eventi erano più importanti della schiavitù dell’ultima ora. E ti faccio proprio l’esempio dei numeri zero».
Su questo tema?
«Esattamente. Scalfari mi aveva affidato il ritratto di un democristiano anomalo, l’onorevole Mazzola».
Francesco Mazzola, deputato di Cuneo, che ebbe fortuna, per una breve stagione, come “democristiano liberale” favorevole al divorzio.
«Esatto, quel ritratto per Eugenio era la prova generale di una attitudine che sarebbe diventata una pietra miliare del nuovo giornale: scegliere i protagonisti e raccontarli, con un taglio di interpretazione forte, trovarsi riferimenti anche nei campi avversari».
E cosa accadde?
«Che il pezzo, dato che uscivamo ogni due o tre giorni con un numero zero, non aveva l’aggiornamento delle ultime notizie di agenzia».
Era grave?
«Ecco il punto. Qualcuno in riunione disse: “Questo ritratto di Valentini è datato, in un numero normale non potrebbe starci”».
E Scalfari?
«Non era d’accordo: “Sì, è vero – disse – può sembrare un po’ datato, ma io voglio che La Repubblica vada alla sostanza delle cose, i lettori badano a quella”».
Era un grande strappo.
«Infatti. Per giunta quell’articolo aveva un titolo tipicamente scalfariano, che altrove sarebbe stato inimmaginabile: “C’è un Pannella anche nella Dc”. Il titolo era già il pezzo!».
Giovanni Valentini, ex vicedirettore di La Repubblica, ex direttore de L’Espresso, parla dell’eredità di Scalfari, della sua rivoluzione nella carta stampata, del rischio di perdita di identità che – secondo lui – la sua creatura sta scontando. Valentini che nel 2016 pubblicò un pamphlet caustico sul suo ex giornale, “La Repubblica tradita”, porta alle estreme conseguenze la sua analisi critica: «Bisogna essere lucidi: oggi, anche dopo la scomparsa del suo fondatore, il giornale di Eugenio non esiste più».
Ripartiamo dall’inizio, come arrivi a La Repubblica?
«Ero al Giorno, avevo da poco avuto un figlio, rischiavo più di qualcosa, ma mi licenziai per seguire Scalfari. Non ci pensai un solo attimo».
Chi ti offrì questa possibilità?
«Due grandi giornalisti. Io collaboravo con Panorama, e avevo come capo a Roma Gianluigi Melega. Fu lui, insieme a quel galantuomo che era Andrea Barbato, che mi stimava, a propormi per l’assunzione».
Che cosa portavi a La Repubblica?
«Ero in perfetta sintonia con quello che Eugenio voleva fare. Da cronista politico vivevo con insofferenza la dittatura della Velina di Vittorio Orefice».
Addirittura “dittatura”?
«Ma non hai idea! I giornali aspettavano come se fosse il verbo che Orefice e i suoi “negri”, nel senso dei ghostwriter, non razziale, spiegassero la giornata con la loro interpretazione».
E spesso era un pasto precotto.
«Ma certo. Alcuni giovani, come Antonio Padellaro e il sottoscritto, già provavano a raccontare la politica in un altro modo».
Ovvero?
«Cercando le notizie sotto casa dei politici, per esempio. Oppure piazzandomi una intera giornata, come mi accadde, davanti alla soglia di piazza del Gesù».
Ah ah ah.
«Con mio grande stupore mi ritrovai citato in un fondo di Fortebraccio su L’Unita. E lui scriveva: “C’è un esperto cronista politico che ha persino contato i caffè e le brioches consumati nel vertice democristiano…”».
La Repubblica fu questo.
«La rottura, prima di ogni altra cosa, della modalità del racconto: delle virgolette, delle agenzie, della ritualità. C’è un altro effetto “scalfariano” di cui non si parla mai».
A quale ti riferisci?
«All’influenza sugli altri giornali: La Repubblica ha costretto tutti i concorrenti a cambiare rotta, ad adeguarsi, a subire il vento di libertà che si respirava sulle nostre pagine».
Dici che fu egemonia giornalistica?
«Esatto. Gli effetti indotti sugli altri furono doppi: sia sul piano della modernizzazione che su quello della libertà».
Dimmene un altro.
«Cambiava anche la redazione. È Scalfari che ha portato in Italia l’Open space. Abbattendo tramezzi, paratie, le stanzette dei capi e dei capetti».
Tu con chi eri?
«In un tavolo a quattro condiviso – pensa! – con Miriam Mafai, Carlo Rivolta, l’uomo dei movimenti e Felice Froio, giornalista intellettuale che seguiva la scuola. Anche il tavolo cambiava il modo di fare il giornale».
Fammi un esempio.
«A Ciampino dove Fanfani tornava dalla Cina, il leader democristiano mi trattò male rifiutando di rispondere ad una mia domanda: “Ovvia Giovanotto! Non mi faccia perdere tempo lei lavora per un giornale che ancora non esiste!”».
Mal gliene incolse. Altre rotture?
«La sede! Eravamo indipendenti e lavoravamo a piazza Indipendenza. Pensa che io parcheggiavo la macchina, ne avevo diritto come cronista parlamentare, a piazza Montecitorio».
Orrore.
«Ehhh… Infatti: ma la lasciavo li, chiudevo il giornale, poi tornavo a prenderla. Un collega di Montecitorio mi accoglieva con un sorriso sarcastico: “Vieni dal suq dei marocchini”? Intendeva dire che stavamo in un quartiere malfamato».
Tu oggi dici che questa grande storia di libertà è finita, anche simbolicamente, con la morte di Scalfari.
«Ne sono certo».
E non hai paura di essere tacciato di farti prendere dal rancore dell’ex?
«No, per nulla. Me ne sono andato io da La Repubblica, con una scelta consapevole, e molti che mi chiedevano di restare. Non ho rancori, non ho rimpianti, rievoco questa memoria come potrebbe fare uno storico».
Hai raccontato di aver telefonato a Scalfari per annunciare la tua scelta.
«Sì, e l’ho fatto, senza essere smentito, con Eugenio ancora in vita».
Perché te ne andavi?
«La goccia che ha fatto traboccare il vaso, nel 2015, è stata la nomina di Mario Calabresi senza consultare sul suo nome Eugenio. Era la rottura del filo di continuità con il fondatore».
Un editore non ha diritto di nominare un direttore che predilige?
«Oh, certo. Ma se sei in un giornale come La Repubblica, e se vuoi che ci scriva Scalfari, hai un dovere di rispetto».
Tu, nel tuo libro hai sparato contro i De Benedetti, e consideri i figli disinteressati ai giornali e incapaci di farli.
«Beh, a definirli “Incapaci e incompetenti”, quando ci fu la crisi, fu l’ingegner Carlo, loro padre. Che però fece l’errore di cedere la società a loro».
Erano i suoi eredi.
«E io penso che conoscesse benissimo i loro limiti, anche prima della disastrosa prova».
Adesso però gli editori sono cambiati di nuovo.
«E quello degli “Agnellini” è stato il colpo di grazia».
Ti riferisci agli Elkann in termini addirittura satirici…
«Senti, tu sai come Scalfari definiva Gianni Agnelli?».
Dimmelo tu.
«Ah ah ah… Lui lo chiamava “L’avvocato di panna montata”».
Addirittura.
«Scalfari conosceva Agnelli da sempre, conosceva la sua prima vita da viveur negli anni Sessanta, sapeva benissimo che gli storici amministratori delegati della Fiat, pensa a Valletta o a Ghidella non gli facevano toccare palla».
E me lo ricordi perché?
«Perché Scalfari non subiva in nessun modo “il mito dell’avvocato”, che fu costruito ex post, negli anni Settanta. Detto questo, senza magnificarlo lo stimava, e bisogna dire Gianni rispetto ai suoi eredi pare un gigante».
Cosa ti rispose Scalfari, quando tu gli dicesti che te ne andavi?
«Che facevo bene. E che voleva farlo lui stesso. Rimase, alla fine, solo per amore dei lettori».
Perché eri così arrabbiato con Calabresi?
«Nulla di personale: l’avevo anche apprezzato, come direttore de La Stampa. Ma era il metodo. La Repubblica ha avuto tre direttori che venivano da La Stampa. Se ce lo avessero detto nel 1976 avremmo riso increduli!».
A questi direttori però arrivò il gradimento.
«Le redazioni hanno fatto finta di non vedere i conflitti di interessi che snaturavano progressivamente l’identità del gruppo e del giornale».
Perché?
«Passando da un editore “puro” ad uno “impuro”, per definizione è inevitabile».
Ti sentivi più garantito da Caracciolo.
«Certo! Caracciolo è stato con Scalfari il padre o la madre del giornale: era un presidio di valori fondamentali».
E oggi?
«La Repubblica si è trasformata da un gruppo editoriale in un gruppo di Potere».
Però ti si potrebbe dire: hai lavorato con tanti editori impuri.
«Eugenio amava ripetere: “Noi siamo un Giornale di contropotere: non significa che siamo pregiudizialmente contro il potere costituito. Ma piuttosto un organo che controlla il potere costituito. Per questo – concludeva – non puoi che essere contropotere”».
Se però non vogliamo idealizzare il passato, dobbiamo anche dire che La Repubblica fu anche un giornale-partito, lo ammetti?
«Molto più che un partito! Fu un vero movimento politico culturale».
Cosa significa?
«Altra massima che Scalfari amava: “Noi ci sintonizzavamo con il pubblico e il pubblico si sintonizzava con il giornale”. Indicare la linea, declinare i valori, mettere alla prova i leader. E non il contrario».
Però rimpiangi Agnelli malgrado la “panna montata”.
«Rispetto ai nipotini era un’altra cosa. Lui aveva, aplomb, distacco ed eleganza…».
E loro come li vedi?
«Direi che sono tecnicamente “estranei” a qualsiasi missione giornalistica editoriale. Hanno preso il giornale per farci altro».
Quindi la storia per te è finita?
«Quella del 1976? Quel miracolo editoriale che abbiamo raccontato? È ormai sepolto, purtroppo, insieme alla bara di Eugenio».