Se si eccettua qualche raro acquazzone più distruttivo che benefico, in alcune zone del Nord Italia non piove da oltre sei mesi. L’ultima volta è stato a inizio dicembre: eravamo nel pieno della campagna vaccinale, il presidente Mattarella pensava che il suo mandato al Quirinale stesse volgendo al termine e il nome di Volodymyr Zelenksy era probabilmente ancora sconosciuto alla maggioranza degli italiani. Da allora, centottanta giorni, o quasi, senza una goccia d’acqua. Il risultato è il Po ridotto a una piana di sabbia grigia. E la crisi ambientale contagia anche l’economia. Da Piemonte, Lombardia, Emilia-Romagna e Veneto è partita la richiesta al Governo: stato di emergenza nazionale. Perché l’allarme siccità si sta allargando al Centro e al Sud, dal Lazio alla Basilicata, alla Sardegna. Certo, che l’Italia si trovi a fare i conti con un’assenza prolungata di precipitazioni non è una novità, specie da una decina d’anni a questa parte, ma questa volta è diverso, è peggio: la secca è aggravata da temperature roventi che bruciano la terra e fanno evaporare più velocemente le molecole di H2O. L’estate è iniziata ufficialmente da appena tre giorni e siamo già al terzo anticiclone africano: 35 gradi a giugno sono ormai la norma e nemmeno i 40 fanno più notizia. Dopo l’emergenza sanitaria e quella energetica, il nostro Paese si scopre dunque fragile anche dal punto vista climatico. Eppure gli scienziati ci avevano avvertito. Basta leggere cosa scrivevano nella “Strategia nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici”, depositata nel lontano 2014 al ministero dell’Ambiente: «I cambiamenti climatici potranno provocare nel breve periodo la riduzione delle produzioni agrarie, della produzione di biomassa dei pascoli e delle foreste, l’aumento dell’abbandono delle terre e del rischio di incendi, mentre nel lungo periodo potranno mettere in luce l’insufficienza degli attuali sistemi idrici che accentuano la vulnerabilità di un territorio agli effetti della siccità e quindi alla desertificazione, dovuta non solo a limiti strutturali delle opere e del sistema idrico nel suo complesso, ma a problematiche gestionali della risorsa che talvolta ne minacciano un’equa fruizione».
Cosa sta succedendo
Coldiretti stima già danni all’agricoltura per 2 miliardi di euro: si prevede un calo di 10mila ettari di semine da riso e preoccupano anche le coltivazioni di grano, mais, di tutti i cereali in generale, dei foraggi per l’alimentazione del bestiame e di ortaggi e frutta. Ma la mancanza d’acqua rischia di diventare un problema serio anche per l’industria manifatturiera, dalla gomma al tessile, dalla siderurgia alla carta, al legno, e per la produzione di energia idroelettrica, già ridotta al minimo. L’impatto è tale che secondo il “Libro Bianco sull’Acqua” del think tank Ambrosetti senza la risorsa idrica il 17% del Pil italiano non potrebbe essere generato. Lo sanno bene le imprese della Pianura Padana, locomotiva economica del Paese ed epicentro di questa crisi idrica. In settant’anni di rilevazioni il Po non aveva mai registrato una portata così bassa: lunedì scorso a Pontelagoscuro, in provincia di Ferrara, il fiume è passato ad appena 180 metri cubi al secondo, a fronte di una media storica del mese di giugno superiore a 1.800. Il cuneo salino proveniente dal Mar Adriatico è ormai penetrato per 21 chilometri dentro la Romagna. L’Autorità di bacino distrettuale del Po (Adbpo) ha fatto scattare il “semaforo rosso”, il massimo livello di allerta, che teoricamente avrebbe come effetto lo stop totale e immediato dei prelievi da parte degli agricoltori che devono irrigare. Ma alla chiusura completa non si è ancora arrivati: nella riunione convocata d’urgenza a Parma con le Regioni e le società idroelettriche, il segretario Meuccio Berselli ha optato almeno in via transitoria per una riduzione dei prelievi agricoli del 20%, una misura attenuata resa possibile solo dal fatto che i grandi laghi del Nord – seppur stremati (il Maggiore si è abbassato di 20 centimetri, l’Iseo di 30) – riescono ancora ad alimentare il grande fiume. «Questo meno 20% ci consente di fermare l’avanzata del cuneo salino e di continuare a soddisfare le esigenze per usi civili delle circa 800mila persone che dipendono dall’acquedotto di Ferrara», spiega Berselli a TPI. Ma mercoledì 29 è prevista una nuova riunione dell’Osservatorio del Po e – avverte il segretario dell’Adbpo – «se non pioverà dovremo ridurre ancora i prelievi» perché «la situazione è gravissima».
Se lungo il Po si piange, nel resto d’Italia certo non si ride. L’Anbi (associazione dei consorzi di gestione delle acque irrigue) fa sapere ad esempio che in Toscana l’Arno ha flussi dimezzati rispetto alla media mensile e che l’Ombrone è «ormai ridotto a uno stato torrentizio». Nelle Marche il Sentino ha già eguagliato il record negativo toccato nell’agosto 2021 (almeno era agosto, non giugno!) e in Umbria il tratto iniziale del Tevere non era così a secco dal 1996. Nel Lazio i fiumi messi peggio sono l’Aniene e il Sacco, mentre – spiega al nostro giornale il direttore generale di Anbi Massimo Gargano – il lago di Albano a Castel Gandolfo «sta morendo. E la falda dei Colli Albani, che per secoli è stata alimentata dal lago, si sta abbassando sempre di più». Va leggermente meglio per i corsi d’acqua di Campania, Puglia e Sicilia, dove però l’agricoltura arranca ugualmente (Coldiretti calcola un taglio del 40% della produzione di olive pugliesi). In Basilicata le alte temperature hanno fatto calare gli stoccaggi idrici di 16 milioni di metri cubi in dodici giorni. In Sardegna ci si è messa pure l’invasione delle cavallette, che sta devastano decine di migliaia di ettari di coltivazioni. Tornando al Nord, poi, in Lombardia, Piemonte e Veneto sono già completamente esaurite, con due mesi d’anticipo, le riserve di neve. Secondo l’Anbi «è questa la grande differenza con l’estate 2021»: anche l’anno scorso c’erano stati lunghi periodi con assenza di precipitazioni, ma almeno si «poteva contare su una riserva di neve che a inizio giugno era doppia rispetto alla media».
Intanto dall’Alto Adige all’Agro Pontino si moltiplicano i provvedimenti locali di razionamento idrico: stop ai consumi notturni, o all’irrigazione diurna, o divieto di innaffiare giardini e riempire piscine. L’ultimo bollettino dell’Osservatorio Siccità del Cnr, pubblicato il 10 giugno scorso, riferisce che più del 40% delle aree irrigue italiane è interessato nel medio-lungo periodo da «siccità severo-estrema», a cui è esposta complessivamente quasi un terzo della popolazione italiana. E guardando al meteo degli ultimi dodici mesi, segnato da scarsissime piogge praticamente ovunque, il Cnr rileva che «buona parte del Nord e diverse aree del Centro-Sud risultano essere in siccità da moderata a estrema». Insomma, sembra il deserto e invece è l’Italia.
Le cause
Ma non c’è nulla di casuale né di imprevisto in tutto questo. «Su episodi simili, così prolungati e intensi, c’è lo zampino del cambiamento climatico», spiega a TPI Claudio Cassardo, professore associato di Fisica dell’Atmosfera presso la Facoltà di Scienze dell’Università degli Studi di Torino. «Non posso dire che sia il cambiamento climatico che ha prodotto questa siccità. L’esempio è quello del corridore che assume sostanze di doping: non posso dire che la sostanza gli abbia fatto vincere una gara specifica. Magari quella gara l’avrebbe vinta lo stesso. Però posso dire che grazie a quelle sostanze ha vinto molte più gare di quelle che avrebbe vinto senza. Il discorso è analogo: senza il cambiamento climatico magari questa siccità ci sarebbe stata lo stesso, ma sarebbe stata meno lunga e meno intensa. Un secolo fa, probabilmente, condizioni identiche avrebbero prodotto qualcosa di meno evidente e di durata più breve. In questo senso il cambiamento climatico ci rende più inclini a questo tipo di fenomenologie». Basti pensare che tra allagamenti, frane e siccità nel nostro Paese tra il 2010 e il 2021 gli eventi meteorologici estremi legati all’acqua sono aumentati in media del 25% all’anno: disastri ambientali spesso provocati da azioni o inazioni dell’uomo, che troppo poco si prende cura del territorio. In Italia, ad esempio, siamo particolarmente inclini a sprecare acqua. L’Organizzazione Mondiale della Sanità ci classifica come un Paese con stress idrico medio-alto: consumiamo in media fra il 30 e il 35% delle nostre risorse idriche rigenerabili, quando l’obiettivo europeo è fissato al 20%. Siamo primi in Europa per prelievi per usi civili, talvolta evitabili come il lavaggio delle strade e delle auto o lo scarico del wc. Per non dire delle nostre 350mila aziende manifatturiere idrovore (per produrre una maglietta si stima servano 2.700 litri) o degli allevamenti intensivi (11.500 litri di acqua per un chilo di carne). Ma il problema è anche infrastrutturale: abbiamo reti idriche talmente vecchie e inefficienti che più di un terzo dell’acqua prelevata non raggiunge l’utente finale.
Soluzioni? Nel “Libro Bianco dell’Acqua” del think tank Ambrosetti si calcola che il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza abbia stanziato circa 7,8 miliardi di euro per la «risorsa acqua» ma si conclude che, «confrontando il dato annuale di risorse dedicate al settore con gli investimenti annui per raggiungere la media europea, si evince come questi fondi non siano sufficienti a colmare gli attuali gap». E nemmeno il meteo ci lascia speranza: per i prossimi giorni non sono previste precipitazioni quasi da nessuna parte sullo Stivale, con conseguenze ambientali ed economiche che dunque potrebbero aggravarsi. Visto che la progettualità non è il nostro forte, non ci resta che fare la danza della pioggia.