Il vescovo di Como, Monsignor Oscar Cantoni, lo ha chiamato “il Santo della porta accanto”. Oggi ne ha parlato anche il Papa, rendendo omaggio a quello ha definito “un martire, testimone della carità verso i più poveri”. Inevitabilmente, la figura di Don Roberto Malgesini, il prete assassinato a Como, sta diventando una sorta di simbolo. E se Bergoglio ha sottolineato che “è stato ucciso da una persona bisognosa che lui stesso aiutava, una persona malata di testa”, oggi Agi ha puntualizzato che sul conto del reo confesso Radhi Mahmoudi esistono sicuramente due provvedimenti di espulsione rimasti sulla carta, mentre non risulterebbero diagnosi di disturbi psichiatrici. E per domani TV8 annuncia uno “scontro di opinioni” tra il direttore di Avvenire Marco Tarquinio e il direttore de Il Giornale Alessandro Sallusti, sul tema: “Le responsabilità per la morte di Don Roberto Malgesini, il prete comasco degli ultimi. Colpa dell’odio, come ha detto la Caritas italiana, o del buonismo?”.
Ma cosa ne pensano gli amici di Don Roberto? Lo abbiamo chiesto a chi lo ha conosciuto all’inizio della sua missione, quando fu inviato a Gravedona, rinomata località turistica di circa 4mila anime sull’Alto Lario. Sostituire un parroco molto amato come Don Enrico Colombo non sarebbe stato facile per nessuno, figuriamoci per un giovane prete di appena 28 anni. E in effetti qualche perplessità all’inizio c’era, come ricorda Silvia Mazzoleni: “Era il 1997/98 e io ero solo un’adolescente, ma anche Don Roberto era molto giovane, quindi ci chiedevamo se fosse all’altezza del compito assegnatogli”. Rispetto al suo predecessore, era anche decisamente più introverso: “Aveva uno stile diverso – spiega Nicola Gugiana – Era riservato e stava molto in disparte. Anche durante le funzioni, sembrava mettersi in un angolo, quasi non volesse stare al centro dell’attenzione”.
Eppure, in breve tempo il prete nato a Morbegno, nella vicina Valtellina, ha saputo spazzare via ogni dubbio, come ricorda Morena Elisabetta Bassi: “Fu giovane vicario della nostra Parrocchia, tanto amato dai nostri ragazzi e dai genitori dell’Oratorio. Una corporatura esile, un sorriso dolcissimo, un cuore infinitamente grande”. Il suo ricordo è affidato a Facebook, dove Mich Rampoldi ricorda il suo “Don” con una citazione: “Sono più le persone disposte a morire per degli ideali, che quelle disposte a vivere per essi”.
“Giovane tra i giovani”, Malgesini è entrato nel cuore della gente di Gravedona con semplicità, come ricorda Giulio Gozzi: “Don Roberto non era un Don per me, era un mio amico. Era quello col quale all’oratorio sono diventato grande”. “Era un ragazzo estremamente giocoso e affettuoso” – continua Silvia nel suo racconto a TPI – “La casa parrocchiale è presto diventata la casa dei ragazzi. Don Roberto era tifoso del Milan e spesso faceva simpatiche discussioni con i ragazzi che invece tifavano Inter e Juve. Era sempre pronto a ridere e a divertirsi: mi ricordo un inverno che, essendo caduta molta neve, siamo andati in giro con il bob! Eppure, allo stesso tempo era anche un prete di altri tempi: pur essendo molto giovane, semplice e timido, era deciso e determinato nella sua vocazione. Sapeva rimproverarci al momento giusto, anche con durezza, per farci riflettere sui nostri errori. Magari ce ne fossero, di preti come lui!”.
Nessuno si sarebbe mai immaginato una fine del genere, anche se Silvia vi legge una sorta di continuazione del percorso di una vita donata al prossimo: “Don Roberto non era certo uno stupido. Sapeva bene a che tipo di rischi andava incontro, dedicandosi agli altri e in particolar modo a coloro che vengono esclusi dalla società. A quei tempi, almeno da noi, non c’erano molti immigrati. La sua generosità era indirizzata a chi ne avesse bisogno, come si capisce ad esempio da un episodio particolare. Alcuni dei ragazzi più grandi dell’oratorio gli avevano regalato un paio di scarpe da ginnastica, che dopo qualche giorno però sono sparite: senza dire niente, le aveva donate a qualcuno che ne aveva più bisogno. Era fatto così: con la stessa naturalezza ha donato la sua vita agli altri in maniera semplice, senza cercare visibilità, e da un decennio viveva tutti i giorni a contatto con situazioni a rischio”.
Proprio per questo, Silvia auspica che sulla vicenda “non si faccia politica e non si facciano nemmeno polemiche. Non è certamente quello che lui avrebbe voluto. Non cercava visibilità e ci ha dato l’esempio di come la vita non sia odio, ma sapersi donare agli altri. Se c’è una riflessione da fare su Don Roberto, è un esame di coscienza che ci porti a seguire il suo insegnamento. E’ proprio vero quello che è stato detto di lui: era il Santo della porta accanto, silenzioso ed umile”. Anche Nicola sostiene che “probabilmente Don Roberto aveva messo in conto che potesse capitargli qualcosa del genere, anche se forse non proprio in questo modo così efferato”. Lavorando in ospedale, lo incrociava spesso: “Era sempre sorridente e di poche parole. Era un uomo del fare. Se c’era bisogno di accompagnare qualcuno a fare una visita, ad esempio, se ne occupava lui senza bisogno di dirsi troppe cose. Il fatto che parlasse poco mi ha sempre colpito, soprattutto in relazione a quel suo sguardo penetrante, che sembrava leggere dentro le persone. Essendo un dottorando in neuroscienze, questo suo carisma particolare mi ha sempre fatto pensare alla sua particolare dote di scrutatore di anime”.
Allo stesso modo, Nicola è ugualmente convinto che Don Roberto non sarebbe affatto felice del clamore suscitato dalla sua vicenda: “In questi giorni di lutto mi sono tornate in mente le parole del compianto Vescovo di Como, Alessandro Maggiolini, che identificava gli eroi moderni in altri due religiosi uccisi: Don Renzo Beretta e Suor Maria Laura Mainetti. Nel ricordarli, sosteneva che loro non avrebbero gradito tante discussioni, ma avrebbero chiesto alla comunità di andare avanti nel loro percorso. Allo stesso modo, sono convinto che se oggi qualcuno dicesse a Don Roberto che è un eroe lui lo guarderebbe da sotto il ciuffo e risponderebbe di essere solo un umile prete. Non è un caso che ne stiamo parlando solo ora, dopo quello che gli è successo: quando da Gravedona è stato trasferito a Como, ha iniziato il suo lavoro con gli extracomunitari nel silenzio più assoluto, senza protestare nemmeno quando è stato multato per aver fatto opera di carità”.
Quel trasferimento da Gravedona causò “una sorta di sommossa da parte delle mamme del Paese”, ricorda Lorenzo Patanè, che ha conosciuto Don Lorenzo anche come insegnante di religione alle scuole medie. “In soli cinque anni nella nostra comunità, aveva costruito qualcosa di davvero profondo”. Un legame che, infatti, non si è spezzato nemmeno dopo il trasferimento: “Io continuavo a sentirlo e, almeno un paio di volte all’anno, lo andavo a trovare a Como. Mi è capitato di andare con lui ad accompagnare degli extracomunitari in ospedale o a servire alla mensa dei poveri. Aveva la capacità di farti sentire queste cose come normali, come se le avessi sempre fatte. Parlava poco? Beh, all’inizio forse sì, ma una volta entrati in confidenza era naturale aprirsi con lui. Ogni volta che gli telefonavo stavo varie decine di minuti a raccontargli di me, ma, ora che mi ci fa pensare, in effetti lui diceva poco”.
“Il fatto che oggi se ne parli ovunque è molto doloroso. Con lui abbiamo imparato la gratuità del donarsi al prossimo, senza distinzione di sesso, razza o religione. Le confesso che, prima di decidere di raccontarle queste cose, ci ho pensato un po’ su. Mi è tornato in mente quanto fosse difficile portare Don Roberto a dare testimonianze della sua attività pastorale. Era anche molto timido. Pensi che una volta lo avevamo convinto a fatica a organizzare un incontro nel quale raccontarci la sua esperienza accanto al prete con il quale faceva assistenza religiosa ai carcerati. È finita che ha fatto parlare solo quest’ultimo, limitandosi ad accompagnarlo da noi”.
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