Taranto, gennaio 1991. Nel quartiere Tamburi che oggi è diventato agli occhi dell’opinione pubblica italiana il simbolo della devastazione ambientale per la sua prossimità allo stabilimento dell’ex Ilva, a cavallo tra gli anni ’80 e ’90, imperversa una cruenta guerra di mala che lascia sul campo, in soli due anni, tra l’89 e il ’91, oltre un centinaio di morti.
Nella città dei due mari in quegli anni si fronteggiano, contendendosi il territorio, due clan: i De Vitis-D’Oronzo e un altro gruppo di fuoco che fa capo ai fratelli Claudio, Gianfranco e Riccardo Modeo. Un quarto fratello, Tonino, detto il Messicano negli ambienti della mala jonica per una vaga somiglianza all’attore Charles Bronson, è invece dall’altra parte. E per questo verrà ucciso proprio dai fratellastri. Stesso destino i fratelli Modeo riserveranno alla loro comune madre, Cosima Ceci, freddata sul pianerottolo di casa da un killer che si fa aprire la porta chiamandola “Zia Mina”, e che la donna considera, appunto, quasi un nipote acquisito.
Città criminali
È in questo contesto spaventosamente criminale che il 30 gennaio del 1991, nel cortile della scuola media del quartiere che è adiacente allo stabilimento siderurgico più grande d’Europa, l’ex Ilva, allora Italsider, e di proprietà pubblica, che due adolescenti cresciuti troppo in fretta, Antonio Sebastio e Giovanni Battista, 15 e 17 anni, vengono uccisi da un killer vestito di nero che, dopo averli chiamati per nome, gli scarica addosso l’intero caricatore di una pistola calibro 22.
Manca qualche minuto alle 14:00 quando quel duplice omicidio viene commesso e, esattamente 20 minuti dopo, la vita di un altro abitante del quartiere, Domenico Morrone, verrà stravolta per sempre. Domenico è un pescatore incensurato di 27 anni a cui nel quartiere Tamburi vogliono bene tutti. Quando può aiuta i vicini di casa a risolvere piccoli problemi domestici. Nei minuti in cui si consumava quell’omicidio, a pochi metri da casa sua, Domenico stava aiutando una coppia di abitanti del palazzo dove abitava, a sistemare il loro acquario. E poi, subito dopo si siederà a tavola per pranzare con l’anziana madre, come faceva ogni giorno. Quel pomeriggio del 31 gennaio del 1991, però, la routine di casa Morrone verrà sconvolta dall’arrivo nell’abitazione di un poliziotto in borghese della squadra mobile di Taranto. Il detective bussa alla porta, si fa aprire, e, dopo qualche minuto di conversazione, Domenico Morrone verrà portato in commissariato. Da lì comincerà la sua odissea, durata quindici anni, quattro mesi e ventidue giorni. Ecco l’ingiusta detenzione subita da un pescatore incensurato di 27 anni.
È l’errore giudiziario più grande d’Italia. E ora la sua storia è diventata un libro, “Vita Dentro 15.4.22”, uscito il 25 gennaio scorso per la casa editrice Antonio Mandese. Un racconto firmato a quattro mani, insieme all’unico giornalista che aveva creduto all’innocenza di Morrone, Luigi Monfredi, allora caporedattore di una tv locale, Telenorba, trent’anni dopo caporedattore a Rainews24.
Quando Monfredi vede scorrere la notizia dell’assoluzione dell’uomo dopo 15 anni di ingiusta detenzione, mentre si trova nella redazione romana, fa un balzo dalla sedia. E decide di riannodare i fili del racconto lì dove si era interrotto. «Questo non è un libro di finzione letteraria che dipinge una storia immaginandola, ma il duro resoconto della vita di un uomo che incontra un altro uomo e lo aiuta a rialzarsi dopo una caduta», sostiene Monfredi. «Questa è la storia vera di un grande dolore che può e deve essere narrata dalla voce contrita dei protagonisti e senza filtri o abbellimenti. Ma questa è anche la storia di una grande amicizia dentro la quale si trovano tutti gli elementi straordinari e ricorrenti delle grandi amicizie che nascono tra persone che vivono e provengono da mondi diversi, eppure s’incontrano».
Ma, soprattutto, questo è il racconto di un calvario giudiziario che attraversa sette processi prima che Morrone potrà dimostrare la sua estraneità da una accusa infamante: quella di aver perso la testa ed aver ucciso due ragazzini con cui aveva litigato perché trafficavano motorini rubati davanti al portone della sua abitazione. Per quel litigio Morrone verrà anche ferito con un colpo alla gamba. Secondo il pubblico ministero dell’epoca, Vincenzo Petrocelli, sarebbe stato questo il movente che avrebbe spinto un pescatore incensurato di 27 anni ad armarsi e uccidere. Le indagini provano anche a collegarlo ai clan, alla guerra di mala che allora imperversa nelle strade di Taranto. In carcere gli chiedono: «A chi appartieni?». «A mamma e papà», risponde ingenuamente.
Domenico Morrone non è un assassino, ne sono convinti in molti, ha pure un alibi. Ma nessuno gli crede, fino a quando due pentiti non fanno il nome del vero colpevole. Ma intanto sono già passati tredici anni. È il 2004 quando inizia il processo di revisione davanti alla Corte d’appello di Lecce durante il quale due pentiti, Alessandro Blè e Saverio Martinese, ammettono che con quegli omicidi quell’uomo non c’entra nulla. «Il vero colpevole è il figlio malavitoso di una donna che da quei ragazzini aveva subito uno scippo. Ce l’ha detto lui», dicono. Così, nel 2006, a 15 anni, 4 mesi e 22 giorni dal suo arresto avvenuto davanti alla madre il 30 gennaio del 1991, viene scarcerato. E sarà risarcito con quattro milioni di euro. Ottocento euro per ogni giorno di carcere. Questo per lo Stato italiano è il prezzo di una ingiustizia subita.
Ingiusta detenzione
«Ogni magistrato, prima di condannare qualcuno, dovrebbe vivere per una settimana in carcere», ha dichiarato qualche tempo fa durante la trasmissione televisiva “Mezz’ora in più” condotta da Lucia Annunziata, Gherardo Colombo, uno dei più apprezzati magistrati italiani, commentando i dati sulle vittime di ingiusta detenzione e di errori giudiziari che in trent’anni, dal 1991 agli inizi del 2021 hanno coinvolto quasi 30mila persone. Per una spesa complessiva per lo Stato, tra indennizzi e risarcimenti veri e propri di 869.754.850 milioni di euro, 28 milioni e 990mila euro l’anno.
Non ci sono solo gli errori, però, a caratterizzare le criticità che oggi affliggono il sistema giudiziario e detentivo italiano. C’è l’abuso dei tempi di custodia cautelare. «È vero, in Italia si abusa della custodia cautelare, spesso al di fuori del dettame costituzionale degli articoli 13 e 27 della nostra Carta fondamentale, quelli che parlano dell’inviolabilità della libertà personale e della non colpevolezza fino a sentenza definitiva», riconobbe pubblicamente lo stesso Colombo.
Secondo quanto ha riferito l’Osservatorio Carcere dell’Unione delle Camere Penali italiane: «l’Italia è il quinto Paese in Europa per tasso di detenuti in custodia cautelare». Un detenuto ogni tre, dunque, attende il processo privato della libertà, nella maggior parte dei casi in carcere. E, come testimonia peraltro l’ultima relazione annuale del ministero della Giustizia sulle misure cautelari, tale scelta risulta ingiusta una volta su 10. Sono circa 1.000 persone l’anno, 3 al giorno, dunque, tenendo conto solo di coloro che hanno chiesto il risarcimento, le persone recluse ingiustamente. Come Domenico Morrone, che però detiene il record, 15 anni, quattro mesi e ventidue giorni, dentro, da innocente.
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