“Penso agli occhi dei ragazzi che arrivano nei Cas poco dopo lo sbarco. Occhi bassi, identità invisibili, traumi indicibili, affetti e parenti persi. Vite da recuperare quasi da zero, altrimenti molto probabilmente alimenteranno la folla di invisibili tanto cara alle mafie pronte a sfruttarli”.
C’è un aspetto del Decreto Sicurezza, approvato dal governo M5s-Lega lo scorso novembre, di cui finora si è discusso troppo poco. La norma, conosciuta anche come Decreto Salvini, taglia migliaia di posti di lavoro nei Cas, i centri che si occupano della prima accoglienza dei migranti che arrivano in Italia.
Accoglienza “straordinaria”, come dice anche l’acronimo, ma che spesso si trasforma in un vero e proprio processo di formazione e inserimento del migrante nel tessuto della società italiana.
Psicologi, mediatori culturali, assistenti sociali e insegnanti di lingua fino allo scorso anno si occupavano, in queste strutture, di fornire agli immigrati gli strumenti per avere un futuro nel nostro paese.
Il Decreto Sicurezza li considera invece figure professionali inutili, da eliminare. L’effetto è devastante, prima di tutto sul fronte occupazionale: 18mila persone rischiano infatti di perdere il lavoro.
Molte associazioni e cooperative si trovano infatti a dover licenziare parte del personale, ragionando su come andare avanti nonostante i tagli previsti dal decreto. Ma c’è anche dell’altro.
I migranti, privati di questo tipo di assistenza, rischiano di venire abbandonati a loro stessi e, una volta fuori, di essere fagocitati dal circuito del lavoro nero, del caporalato, della mafia.
“Il problema di questo decreto – spiega a TPI Valentina, psicologa che lavora da quattro anni in uno sportello di ascolto di un centro di accoglienza in Abruzzo – è che considera i Cas come dei luoghi di transito che, quindi, non necessitano di personale qualificato per l’assistenza psicologica ai migranti. La realtà però è molto diversa. A causa di lungaggini burocratiche, i migranti possono restare in questi centri per un anno o anche di più”.
“Anche per questo – prosegue – a noi operatori del settore era stato dato un mandato preciso, quello di operare in tutto e per tutto come uno Sprar, creare un percorso di accoglienza improntato su un progetto di vita”.
Prima del decreto Salvini nei Cas, come detto, erano previste le figure dello psicologo, del mediatore linguistico culturale, dell’insegnante di lingua italiana e dell’assistente sociale.
“Adesso, con i nuovi capitolati contenuti nel decreto, di queste figure per il governo non c’è più bisogno. Psicologi e insegnanti di italiano sono stati rimossi, al mediatore linguistico-culturale e all’assistente sociale vengono tagliate le ore: 10 a settimana per il primo, 6 per il secondo, una cosa ridicola”.
“Viene anche abolita la sorveglianza notturna nei centri, trasformati in dormitori in cui accatastare i migranti senza garantire loro gli standard minimi di sicurezza”.
Ma non è tutto. Il decreto Salvini ha ridotto notevolmente anche i fondi: da 35 euro per migrante si è passati a 20. Un taglio che non ha come conseguenza solo il licenziamento dei lavoratori.
“Si crea un modello di accoglienza che punta sulla quantità e non sulla qualità – continua Valentina – A una cooperativa, in queste condizioni, conviene affittare uno stabile, accatastare tante persone fornendo loro solo un tetto e qualcosa da mangiare. Viene privilegiato chi l’accoglienza la fa male, eliminando i percorsi virtuosi di integrazione”.
“Come figure professionali – spiega – abbiamo avuto un senso: senza il sostegno psicologico, i migranti vengono spinti nella marginalità sociale. Va considerato che sono una fetta di popolazione ad alto rischio: molti hanno subito traumi, violenze, sono passati per la Libia, hanno affrontato una traversata in mare, e magari una volta in Italia devono convivere con un clima di razzismo montante”.
Ma non c’è solo l’assistenza psicologica: insegnare l’italiano è imprescindibile per permettere ai migranti di cercare un lavoro. La stessa ricerca di un impiego necessita di assistenza da parte di professionisti del settore. Ci sono le vittime di tratta, che vanno aiutate a denunciare i loro sfruttatori.
“Quando ho scelto di lavorare nel sociale sapevo a cosa sarei andata incontro: precariato, stipendi altalenanti e magri, poche possibilità di carriera”, continua Valentina.
“Ora però mi trovo con un bagaglio esperienziale e professionale immenso, pieno di volti, storie, famiglie e persone che ho incontrato e a cui ho lasciato una piccola traccia della mia esperienza e del mio sapere. Mai come oggi, però, trovo che il mandato sociale a cui rispondo (che è stato commissionato dal Ministero degli Interni) sia ambivalente e confuso”.
“Penso ai tanti, tantissimi ragazzi che in questi anni abbiamo aiutato – prosegue – Penso a W.S. che sta svolgendo il Servizio Civile, a K.H. che vuole avviare la sua attività in proprio, a A.T. ed ai suoi lavori artigianali al pirografo, a B.O. che per la prima volta va a scuola, a tutti i ragazzi che hanno svolto volontariato e corsi di formazione professionali. Alla base di questo vi è un sottile e delicato lavoro di recupero psicologico e rimodulazione emotiva e cognitiva”.
Un lavoro che, appunto, col decreto Salvini non sarà più possibile svolgere. “Lavorare come psicologa in un Cas è delicato e rischioso: mi sarei aspettata tutele e maggiore serietà, e non di dovermi sentire io la criminale. Siamo all’assurdo. Io e i miei colleghi abbiamo lavorato per ridare parola e dignità, confronto, consapevolezza e partecipazione. Questo per me è accoglienza. L’ Italia sta invece oggi pericolosamente scivolando verso il basso, violando principi internazionali e diritti umani. Lo dico da donna e da professionista: non mi riconosco in questo e continuerò ad espormi per tentare di contrastarlo”.
Silvia, assistente sociale, nei Cas ha aiutato tanti migranti a intraprendere un percorso di integrazione. Ora il sentimento che avverte è quello della paura. La sua, quella dei migranti, quella di chi i migranti li teme senza ragione.
“Quando penso al Decreto sicurezza, la prima cosa che ho in mente é il volto di B.M., un beneficiario accolto presso il centro di accoglienza in cui lavoro. B.M. è un ragazzo ben integrato e parla discretamente l’italiano; una mattina, dopo essere stato presso un’agenzia interinale per un colloquio di lavoro, appena tornato mi dice: ‘Non trovavo la strada e ho provato a chiedere indicazioni a qualche passante. Ma sai com’è, ogni volta che un ragazzo di colore si avvicina, non importa cosa ha da chiedere: loro pensano automaticamente che tu li voglia aggredire o gli stia chiedendo dei soldi’”.
“Questo è l’effetto del decreto sicurezza – continua Silvia – un decreto che alimenta paura e diffidenza verso l’altro, che mira a contenere lo straniero e segregarlo. Ma chi ha pensato e voluto questo decreto non dice ciò espressamente: lo fa tagliando le ore a figure professionali come insegnanti di italiano e psicologi e riducendo le ore di assistenti sociali e mediatori. In pratica, limitando l’operato di tutti coloro che da sempre si sono adoperati più di tutti per cercare di trasformare quello che gli italiani definiscono ‘problema’ in una risorsa e opportunità per tutti”.
“Proprio per questo, è importante sottolineare come il decreto sicurezza non significa soltanto il caso Diciotti o quello della Sea Watch, ma è lo scandalo di un sistema di accoglienza che, già sofferente, si impoverisce ancora di più”.
Mariella, insegnante di italiano in un centro di accoglienza abruzzese, ci spiega come il Cas non sia un luogo per l’accoglienza emergenziale, bensì “un posto popolato da gente colorata, in cui c’è sempre qualcosa da dire e condividere. È un luogo dove si impara tanto, molto di più di quanto si possa insegnare”.
“Io che avevo (mi viene naturale, purtroppo, parlare al passato) e avrò ancora per poco il ruolo di insegnante, mi sono ritrovata nei panni di alunna, nutrita delle loro speranze, alimentata dalle svariate storie ed esperienze, incoraggiata dalle loro aspettative. Ho capito cosa significasse che l’altro è un altro sé. L’alterità, se vissuta con totale apertura, è semplicemente una sfumatura della realtà, l’altra parte della staccionata che si teme di oltrepassare. Se si gioca ad alzare il livello sella staccionata anziché abbassarlo, però, la paura cresce e saltare dall’altra parte è sempre più difficile”.
“Favorire le condizioni perché imparino ad esprimersi nella lingua del paese ospitante significa accelerare il processo di integrazione – spiega Mariella – renderli autonomi e capaci di provvedere ai propri bisogni. Negare tale opportunità, al contrario, vuol dire ridimensionare il contributo che potrebbero apportare e ingigantire lo stereotipo secondo cui siano un peso sociale. Si è optato per la seconda scelta, si è deciso di alzare il livello della staccionata, alimentando così la barriera fatta di non conoscenza, fraintendimenti e disinformazione. Si è deciso di mortificare l’apertura verso l’altro come antidoto all’integrazione”.
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