Giorgia Meloni non ha notato quel coniglietto di peluche azzurro posto accanto a una delle tante bare bianche a Cutro. Per quei morti non abbiamo ascoltato la sua voce rotta dall’emozione, mandata a canali unificati durante la visita della premier a Boucha, sul fronte della guerra, di qualche giorno prima: «Quando vedi i peluche dei bambini vicino ai fiori, non ha senso e non si può tentare di trovare un senso».
Quelle parole di pietà pronunciate in Ucraina non hanno avuto una replica davanti ai morti del naufragio davanti al mare di Crotone.
Meloni ha deciso di tacere per giorni, nessun tweet, una sorta di silenzio stampa, per quasi una settimana, fino ad annunciare – quando anche i tempi supplementari erano scaduti – un Consiglio dei ministri nella città calabrese della tragedia, dedicato all’immigrazione. E questo è il dato politico, che rimane scolpito per sempre nelle cronache del suo governo.
Il Paese si è visto rappresentare da un silenzioso e turbato Sergio Mattarella, arrivato a Cutro quando ancora il conteggio dei morti non era definitivo. È rimasto a lungo raccolto davanti alle sessantasette bare (nel momento in cui scriviamo il numero è arrivato a sessantanove), mentre la popolazione fuori gridava «Giustizia, giustizia».
I pescatori, le famiglie del crotonese, tutti in terra di Calabria sanno quello che è avvenuto. Il Mediterraneo è diventato, di nuovo, una tomba. Accade continuamente, ma questa volta le acque i cadaveri ce li hanno sbattuti in faccia, sulle nostre spiagge, uno dopo l’altro. «Giustizia», chiedono i crotonesi e questo è uno dei primi, delicati, banchi di prova per l’esecutivo di estrema destra eletto lo scorso settembre.
“La realtà dei fatti”
Agli atti della prima inchiesta della Procura di Crotone sugli scafisti è stato allegato un vero e proprio diario dettagliato sul naufragio. È stato compilato da terra, e già questa è la prima anomalia.
Ad intervenire per primi sulla spiaggia di Cutro, scoprendo quello che era appena avvenuto, sono stati due militari, un vicebrigadiere e un carabiniere, che sono arrivati sul posto del naufragio alle 4.30 del mattino.
Erano stati chiamati per un intervento dalla centrale operativa del 112, che alle 4.10 aveva ricevuto una chiamata con una richiesta di aiuto: «Quale equipaggio radiomobile con turno 00/06 ed Ordine di servizio nr. 103/2, alle ore 04.15 circa odierna, venivamo contattati da personale della Centrale operativa di questa Compagnia Carabinieri che ci ordinava di recarci nel Comune di Cutro frazione Steccato – località Foce lacina, in quanto presso quella centrale era giunta una richiesta di intervento in ordine ad uno sbarco di clandestini».
La scena che trovano è inimmaginabile per i due militari. Con le torce si avvicinano alla spiaggia. Appare un primo cadavere, riverso sulla battigia. Altri venti metri, nel buio fitto, e appaiono i resti dell’imbarcazione. Frammenti di legno e poco più.
Si avvicinano al relitto, immergendosi nell’acqua, e altri due corpi appaiono, privi di conoscenza. Li liberano dal peso di quel che rimaneva del caicco, li portano a riva: una donna era già cadavere, un uomo lentamente inizia a riprendere conoscenza. Deve la vita ai due giovani carabinieri, entrati con tutta la divisa in mare.
A questo punto il brigadiere e il carabiniere capiscono che non sono lì come “law enforcement”, a bloccare “clandestini”: «Riscontrata la realtà dei fatti, in considerazione del fatto che noi militari eravamo gli unici soccorritori presenti, richiedevamo alla Centrale operativa l’inoltro degli aiuti del caso».
In quella frase, «riscontrata la realtà dei fatti», c’è tutto il senso della tragedia di Cutro. Una frase che Meloni, il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi – che ama definirsi con «questurino» – e il suo collega di partito Matteo Salvini, ministro delle Infrastrutture, non hanno mai pronunciato, neanche dopo la conta dei morti. Il senso dello Stato, quella notte, era racchiuso solo negli occhi e nell’umanità di quei due carabinieri.
La Guardia Costiera. Un’ora dopo
Mentre continuano a soccorrere le persone, con l’aiuto di qualche pescatore, per lunghissimi minuti nessun altro interviene. Gli “unici soccorritori”, di fronte al naufragio di un’imbarcazione carica di persone, erano i due carabinieri.
Nella loro relazione di servizio riportano uno stralcio dell’informativa della Capitaneria di Porto di Crotone, «che circostanzia il luogo e l’orario dello sbarco: alle ore 04.37, tramite 1530, si riceveva segnalazione riguardo la presenza di una barca a circa 40 metri dalla foce del fiume Tacina su un fondale presumibilmente sabbioso e con profondità di circa 3 metri».
«Alle 04.55 ci ricontattava il segnalante riferendo che le persone si stavano tuffando in acqua e stavano nuotando verso riva, evidenziava, inoltre, la presenza di probabili cadaveri e che la barca si era distrutta».
Il primo vero intervento della Guardia Costiera – secondo quanto riportato nelle relazioni – avviene molti minuti dopo: «Alle ore 05.35, la prima pattuglia di terra G.C., giunta sul posto, riferiva di numerose persone in stato di ipotermia in spiaggia, trascinate a riva dalla risacca così come alcuni cadaveri. La motovedetta CP 321, intervenuta da Crotone, iniziava attività di ricerca e soccorso al largo».
Per molti naufraghi era ormai troppo tardi. L’arrivo del Corpo che si occupa di “ricerca e soccorso” avviene un’ora e quarantacinque minuti dopo l’evento. Un tempo enorme in mare.
Scaricabarile
Una settimana dopo il naufragio, Giorgia Meloni rompe il silenzio, ormai insostenibile. Lo fa gettando la palla verso l’Europa, questa volta rappresentata dall’agenzia che si occupa di confini: «I naufraghi non erano nelle condizioni di essere salvati: la questione è semplice nella sua tragicità. Non è arrivata alcuna comunicazione di emergenza da Frontex». Nelle ore precedenti tante voci del governo insistevano già su questo punto: i naufraghi non hanno chiamato chiedendo aiuto, nessun segnale di distress è mai arrivato, è stato il leitmotiv per giorni.
Torniamo alla notte precedente il naufragio. Il Mediterraneo è probabilmente il mare più controllato e osservato del pianeta. Oltre ai satelliti, ai radar delle missioni militari, alla sorveglianza strategica aumentata dopo l’invasione dell’Ucraina, Frontex da anni pattuglia costantemente le acque attraverso dispositivi aerei.
Il velivolo Eagle 1 dell’agenzia europea ha intercettato alle 23.03 di sabato 25 febbraio l’imbarcazione proveniente dalla Turchia diretta verso le coste calabresi. Vedono un uomo in coperta, ma i sensori rilevano la presenza certa di molte persone nella stiva.
Cosa accade a questo punto? Lo racconta una fonte autorevole di Frontex ad Euractiv: «I nostri esperti hanno individuato alcuni segni che la barca potrebbe trasportare un gran numero di persone, ad esempio la telecamera termica a bordo dell’aereo ha rilevato una risposta termica significativa dai portelli aperti a prua».
La stessa fonte ha poi spiegato che queste informazioni sono state condivise subito con il governo italiano. Che, dunque, sapeva tutto.
A chi è stata inviata questa segnalazione? I protocolli prevedono che questi alert siano condivisi con il National Coordination Center (Ncc), una sorta di sala situazione che dipende dalla Direzione della Polizia di Frontiera e di Immigrazione del Viminale. La stessa informazione è stata inviata anche al Imrcc della Guardia Costiera, ovvero la centrale che sovraintende alle operazioni di salvataggio in mare.
Le autorità italiane hanno a questo punto definito il caso come un tentativo si sbarco di immigranti irregolari, non ritenendo che vi fosse un pericolo di naufragio. Le informazioni che avevano erano complete, come spiega la fonte Frontex: c’era un barcone molto probabilmente carico di persone, con previsioni di peggioramento delle condizioni meteo.
Il Ncc italiano a questo punto passa il caso alla Guardia di Finanza, che ha la competenza per le operazioni di polizia in mare. Escono due mezzi, non trovano l’imbarcazione, e rientrano per il mare grosso. È questo il secondo punto critico: nessuno pensa a rivalutare quel caso, nessuno – per quello che sappiamo fino ad oggi – ipotizza che il barcone di legno carico di persone (fatto dimostrato dai segnali termici ricevuti da Frontex) in quelle condizioni potesse naufragare.
Chi c’era a bordo
Kabiry, uno dei sopravvissuti, ascoltato dalle autorità di polizia italiane, ha raccontato il suo viaggio, durato più di un anno.
È partito da Kabul sei mesi dopo la partenza del contingente internazionale dall’Afghanistan, quando i Talebani ormai da tempo stavano restaurando il loro regime: «Nel mese di dicembre 2021 ho lasciato da solo la mia città Kabul per raggiungere la provincia di Nimruz in autobus, una provincia dell’Afghanistan e da lì entrare clandestinamente in Iran, tramite i trafficanti. A metà strada a bordo di automezzi pick-up e per alcuni tratti a piedi. In Iran sono rimasto circa un anno lavorando in un negozio di arredamenti (divani, sedie) nella città di Teheran. Successivamente, a inizio del mese di dicembre 2022, mi sono trasferito, sempre clandestinamente, in Turchia. Già nel capodanno del 2023 ho provato a raggiungere l’Italia ma sono stato arrestato insieme ad altre persone dalla Polizia turca e condotto in un campo di prigionia, ove sono rimasto per circa due mesi fino all’evento del terremoto che ha coinvolto quel territorio. A seguito di tale disastro, siamo riusciti ad uscire e scappare dal campo».
Il racconto mostra con chiarezza che Kabiry rientra pienamente nella casistica dei rifugiati: proviene da un Paese dominato dalla dittatura dei Talebani, con un regime che reprime i diritti più elementari. Ed è questo il vero punto chiave della tragedia di Cutro. Kabiry e molti altri avevano il diritto di richiedere la protezione dello Stato italiano.
Le normative internazionali – confermate più volte dall’Imo, l’agenzia Onu che si occupa del mare – in questo senso sono chiare: un migrante su un’imbarcazione in difficoltà è prima di tutto un potenziale naufrago. Va salvato, perché non è possibile valutare il suo status fino a quando non è in un porto sicuro.
Questo principio è stato di fatto invertito: le autorità italiane prima hanno classificato il barcone come un evento di “law enforcement”, ovvero un’operazione di polizia, da affidare ad un corpo che si occupa di repressione di reati e non di salvataggio, come la Guardia di Finanza. Solo a naufragio avvenuto – quando ormai il barcone di legno si era schiantato davanti alla spiaggia di Cutro – è intervenuta la Guardia Costiera.
Per Alessandro Gamberini, avvocato che ha seguito moltissime inchieste su migrazioni, lo scenario la notte tra il 25 e il 26 febbraio era preciso: «L’obbligo di soccorso non scatta solamente quando c’è il naufragio, quando è troppo tardi – ha spiegato su Radio Radicale – ma anche quando si nota che un natante è sovraccarico di persone, che porta un carico di migranti. La situazione era quindi chiara a tutti: c’era un natante carico di migranti che si dirigeva verso le coste italiane, c’era un meteo che era dato in peggioramento, e quel barcone inevitabilmente era in pericolo. Aver privilegiato solo l’intervento di polizia è la ragione della sciagura». Una decisione tutta politica.
Leggi l'articolo originale su TPI.it