Due domeniche fa Paola (nome di fantasia) si è svegliata al mattino presto con il cuore che batteva più veloce del solito, come se stesse per esplodere. Già da qualche giorno soffriva di tachicardia: un sintomo non comune per la sua età, 32 anni. Così ha deciso di andare a farsi visitare al pronto soccorso della sua città, Avellino.
Alle 9.30 era davanti allo sportello di accettazione. Quando ha spiegato perché era lì, le sono stati controllati i battiti e le è stata misurata la pressione: le rilevazioni hanno confermato lo stato di tachicardia. «Codice verde», ha stabilito l’operatore. «Si accomodi in sala d’attesa, la chiameranno per gli esami del sangue».
Paola ha aspettato tre ore, con il cuore che intanto continuava a galoppare, prima che arrivasse il suo turno. Alle 12.30 è stata finalmente chiamata per il prelievo del sangue e le sono state somministrate alcune gocce per calmare il battito. «Ora torni ad accomodarsi in sala d’attesa, la chiameranno per consegnarle gli esiti dell’esame».
Quando i risultati sono arrivati, l’effetto delle gocce era ormai svanito: erano le 16.30. Sul referto c’era scritto che le si consigliava visita di controllo cardiologica con eco Tsa. «Scusi, ma sono in un ospedale: non è possibile farla ora che ne ho bisogno?», ha chiesto Paola. «No – le è stato risposto – non è previsto. Arrivederci».
Questa giovane donna ha così trascorso sette ore al pronto soccorso senza riuscire a placare la sua tachicardia né tantomeno riuscire a scoprire il perché di quello strano malessere. Risultato: il giorno seguente, ha chiesto e ottenuto in pochi minuti una visita con un cardiologo privato al costo di 150 euro. Se paghi, ricevi cure tempestive; altrimenti, puoi pure metterti in fila.
Quello di Paola non è certo un caso estremo. Vicende come la sua si ripetono ogni giorno per milioni di italiani. Ormai passare giornate intere al pronto soccorso, o attendere mesi o addirittura anni per poter fare una visita specialistica, è diventata la normalità. «I principi fondanti del Sistema sanitario nazionale, universalità, uguaglianza, equità, sono stati traditi», osserva Nino Cartabellotta, presidente della Fondazione Gimbe.
L’organizzazione bolognese – che si occupa di ricerca, formazione e informazione scientifica – ha recentemente presentato il suo sesto Rapporto sul Ssn.
Dall’indagine emerge un quadro a dir poco infausto: il diritto alla tutela della salute (sancito costituzionalmente) è ormai «compromesso». Al punto che Cartabellotta parla apertamente di Sanità pubblica «ormai al capolinea», fra «interminabili tempi di attesa, affollamento dei pronto soccorso, impossibilità di trovare un medico o un pediatra di famiglia vicino casa, inaccettabili diseguaglianze regionali e locali sino alla migrazione sanitaria, aumento della spesa privata sino all’impoverimento delle famiglie e alla rinuncia alle cure».
Nessun governo innocente
Nel 2022 lo Stato italiano ha speso 171,8 miliardi di euro per la Sanità, di cui 130,4 miliardi di spesa pubblica, 36,8 miliardi di spesa “out-of-pocket” ovvero a carico delle famiglie e 4,6 miliardi di spesa intermediata da fondi sanitari e assicurazioni. Si tratta del 6,8% del Pil nazionale, una quota inferiore rispetto alle medie dei Paesi europei e dei Paesi Ocse, entrambe assestate a quota 7,1%.
Questi 0,3 punti percentuali di differenza potrebbero sembrare poca cosa, ma si traducono in un gap con la media dei Paesi europei dell’area Ocse pari a 48,8 miliardi di euro, vale a dire 829 euro pro-capite. La spesa sanitaria pubblica per cittadino nel nostro Paese è in media circa la metà di quella tedesca e inferiore di un terzo a quella francese.
Il problema non nasce ovviamente oggi, sottolinea il report di Gimbe. Le difficoltà odierne della Sanità italiana sono il risultato di quindici anni di sforbiciate e investimenti inadeguati. I numeri, secondo Cartabellotta, «forniscono la dimensione di quanto tutti i governi abbiano utilizzato la spesa sanitaria come un bancomat, dirottando le risorse su altre priorità mirate a soddisfare il proprio elettorato. Considerando sempre la spesa sanitaria come un costo e mai come un investimento, e ignorando che la salute e il benessere della popolazione condizionano la crescita del Pil».
Tra il 2010 e il 2015 sono stati tagliati oltre 37 miliardi di euro e tra il 2015 e il 2019 più di 12 miliardi. Durante la stagione della pandemia il Fondo sanitario nazionale è aumentato, sì, di 11,2 miliardi, ma il finanziamento è stato assorbito dai costi del Covid-19, risultando del tutto insufficiente.
Il progressivo aumento del gap con la media dei Paesi europei, analizza Gimbe, «è perfettamente in linea con l’entità del de-finanziamento pubblico relativo al decennio 2010-2019, ma poi si è sorprendentemente ampliato nel triennio 2020-2022 durante l’emergenza pandemica».
Complessivamente – prosegue il rapporto – rispetto alla media dei Paesi europei, nel periodo 2010-2022 la spesa sanitaria pubblica italiana è stata inferiore di 363 miliardi di euro. E per colmare il divario pro-capite, si stima che nel 2030 sarebbe necessario un incremento totale di 115,9 miliardi di euro, che si tradurrebbe in un finanziamento costante di 14,49 miliardi di euro per anno a partire dal 2023. Si tratta di «cifre palesemente irraggiungibili per la nostra finanza pubblica», fa notare Cartabellotta. Basti pensare che nell’ultima manovra i fondi destinati alla Sanità ammontano ad appena 3 miliardi di euro.
Tre stagioni
Il periodo 2010-2019 viene definito da Gimbe «la stagione dei tagli». Alla Sanità pubblica sono stati sottratti oltre 37 miliardi di euro, di cui circa 25 miliardi nel quinquennio 2010-2015, scandito da manovre economiche tutte impostate sul prioritario risanamento della finanza pubblica, e oltre 12 miliardi tra il 2015 e il 2019, in conseguenza del de-finanziamento che ha assegnato meno risorse al Ssn rispetto ai livelli programmati.
In quel decennio il Fsn (Fabbisogno Sanitario Nazionale, ossia l’ammontare dei fondi stanziati dallo Stato per la Sanità) è aumentato complessivamente di 8,2 miliardi di euro, crescendo in media dello 0,9% annuo, tasso inferiore a quello dell’inflazione media annua (1,15%).
Nel periodo 2020-2022, «la stagione della pandemia», il Fsn è salito complessivamente di 11,2 miliardi di euro, (+3,4% annuo). Ma «questo netto rilancio del finanziamento pubblico – precisa Gimbe – è stato di fatto assorbito dai costi del Covid 19, non ha consentito rafforzamenti strutturali del Ssn ed è stato insufficiente a tenere in ordine i bilanci delle Regioni».
Si arriva così al periodo 2023-2026, «il presente e il futuro prossimo». La Legge di Bilancio 2023 ha incrementato il Fsn di 2,1 miliardi di euro, mentre la manovra appena varata prevede 3 miliardi per il 2024, altri 4 per il 2025 e 4,2 miliardi per il 2026.
Il potenziamento delle risorse, tuttavia, secondo le stime di Gimbe condurrà a una progressiva discesa del rapporto fra spesa sanitaria e Pil, dal 6,8% del 2022 al 6,1% del 2026. Per la fondazione, questi dati sono la prova di nuovi segnali di de-finanziamento che faranno sì che il 2024 sarà ben lontano «dall’essere l’anno del rilancio».
«Nel 2022 e nel 2023 – rimarca ancora Gimbe – l’aumento percentuale del Fsn è stato inferiore a quello dell’inflazione: nel 2022 l’incremento del Fsn è stato del 2,9% a fronte di una inflazione dell’8,1%, mentre nel 2023 l’inflazione al 30 settembre acquisita dall’Istat è del 5,7% a fronte di un aumento del Fsn del 2,8%».
Paese spaccato
Un altro enorme problema, poi, sta nelle profonde disuguaglianze interregionali. E la richiesta di maggiori autonomie proprio da parte delle Regioni con le migliori performance sanitarie rischia di amplificare le diseguaglianze già esistenti.
Nel rapporto Gimbe si traccia il quadro di un Paese che sta «inesorabilmente scivolando da un Servizio nazionale fondato sulla tutela di un diritto costituzionale a ventuno sistemi sanitari regionali regolati dalle leggi del libero mercato».
Rispetto ai Livelli essenziali di assistenza sanitaria (Lea), nel 2020 l’unica regione del Sud tra le undici adempienti è stata la Puglia. Nel 2021 delle quattordici adempienti solo tre erano del Sud: Abruzzo, Puglia e Basilicata. E sia nel 2020 che nel 2021 le regioni meridionali sono ultime tra quelle adempienti.
Dagli adempimenti Lea relativi al decennio 2010-2019 emerge che nelle prime dieci posizioni non c’è nessuna regione del Sud e che le tre Regioni che hanno richiesto maggiori autonomie si collocano nei primi cinque posti della classifica.
La fondazione parla apertamente di una «frattura strutturale Nord-Sud che sta per essere normativamente legittimata dall’Autonomia differenziata».
Anche i dati sulla mobilità sanitaria documentano che i flussi economici scorrono prevalentemente dal Meridione al Settentrione. Nel 2020 il 94,1% della mobilità attiva si concentra in Emilia-Romagna, Lombardia e Veneto, mentre l’83,4% del saldo passivo grava su Campania, Lazio, Sicilia, Puglia, Abruzzo e Basilicata, peraltro con la Calabria non contabilizzata.
Nel decennio precedente tredici regioni, quasi tutte del Centro-Sud, hanno accumulato un saldo negativo pari a 14 miliardi di euro e tra i primi quattro posti per saldo positivo si trovano le tre Regioni che hanno richiesto le maggiori autonomie.
Il report Gimbe evidenzia poi come siano 298.597 gli infermieri che lavorano nelle strutture sanitarie: la media nazionale, secondo i dati del ministero della Salute, è di 5 infermieri per mille abitanti, con un range che varia dai 3,6 della Campania ai 6,7 del Friuli Venezia Giulia (gap dell’87%). E, anche qui, l’Italia si colloca ben al di sotto della media di altri Paesi europei, con 6 infermieri per mille abitanti (in questo caso contando anche quelli che non lavorano per il Ssn), a fonte dei 9,9 della media Ocse.
A quasi 45 anni dalla legge istitutiva del Sistema Sanitario Nazionale, Cartabellotta invoca allora «un patto sociale e politico che, prescindendo da ideologie partitiche e avvicendamenti di governi, rilanci quel modello di sanità pubblica, equa e universalistica, pilastro della nostra democrazia, conquista sociale irrinunciabile e grande leva per lo sviluppo economico del Paese».
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