Era il 17 marzo del 2020 quando, sulla testata online TPI, scrivevo il mio primo articolo sul focolaio della Val Seriana, dal titolo: “Coronavirus Anno Zero, quel 23 febbraio all’ospedale di Alzano Lombardo: così Bergamo è diventata il lazzaretto d’Italia”. Un articolo, il primo di tanti, che ho faticato a pubblicare, sebbene avessi già da almeno due settimane informazioni cruciali e inedite tra le mani.
Ho preso tempo, ho fatto decine di verifiche, ho raccolto testimonianze drammatiche, ho faticato per convincere le persone a parlare, ho garantito loro l’anonimato, poi ho cercato riscontri, chiesto repliche ufficiali (che mi sono state negate), ho avuto accesso a documenti riservati, ho incrociato i dati con quello che leggevo sui giornali, che vedevo in tv. Da nessuna parte, almeno sulla stampa nazionale, trovavo la messa in fila delle tante, troppe incongruenze.
E soprattutto avvertivo che nel Paese non vi fosse la consapevolezza che quello che stava accadendo a Bergamo, in Val Seriana, nella culla industriale della Lombardia, fosse collegato anche alla componente produttiva ed economica di questa terra e a un’impreparazione politica decennale.
C’era però un fatto innegabile: la gemma della sanità italiana, la Lombardia, uno dei modelli sanitari più carenati d’Europa, stava capitolando vertiginosamente sotto i colpi inferti da un’epidemia incontrollata. Quando, a inizio marzo, parlai per la prima volta con il direttore di TPI, Giulio Gambino, raccontandogli quali informazioni avessi raccolto e quali dubbi mi stessero tormentando, gli dissi anche che non volevo occuparmi io di questa storia.
Troppo dolore, troppo coinvolgimento personale, troppa paura di sbagliarmi. Il rischio per me era evidente: temevo di aggiungere confusione e sconcerto a un’opinione pubblica già disorientata e travolta da un’infodemia pericolosa. Ma prima di essere una cittadina bergamasca, ero anche una cronista e in quanto tale non potevo voltarmi dall’altra parte. E allora, grazie anche al sostegno e alla spinta dell’intera redazione di TPI, ho accettato di imbarcarmi in questo viaggio, che non è ancora finito.
Sono passati due anni esatti da quei giorni indimenticabili. Due anni in cui, fino allo scoppio della guerra in Ucraina, non si è fatto altro che parlare di Covid. Due anni, che hanno cambiato per sempre l’umanità, che hanno spazzato via un’intera generazione, che hanno lasciato a terra morti e feriti, che hanno acuito le diseguaglianze, che hanno creato nuovi poveri, malessere diffuso, depressione, instillando dentro di noi un atroce interrogativo: tutto questo era davvero inevitabile?
Se ci concentriamo ad analizzare solo la prima fase di questa pandemia, oggi sappiamo che l’Italia, la Lombardia, Bergamo, la Val Seriana, hanno pagato il prezzo più alto al mondo in termini di vite umane. E allora, la semplice, seppur doverosa, commemorazione delle vittime COVID-19 di domani 18 marzo (data in cui la foto dei carri militari a Bergamo fece il giro del mondo), lascia il posto a un’altrettanta doverosa analisi degli errori, senza la quale non saremo mai all’altezza di nessuna emergenza, di nessuna sfida. Di nessuna tragedia.
Prossimamente l’inchiesta completa di Francesca Nava, in esclusiva su TPI in edicola.
L’INCHIESTA DI TPI SULLA MANCATA CHIUSURA DELLA VAL SERIANA PER PUNTI:
- “Quel voto di sfiducia contro Gallera è stato falsato”: parla la consigliera regionale Carmela Rozza
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