Nelle puntate precedenti della rubrica abbiamo diffusamente parlato di vaccini, spiegando i) perché è assolutamente indispensabile vaccinarci tutti il più velocemente possibile e ii) perché, anche alla luce del fatto che i vaccini sono straordinariamente efficaci e sicuri ma hanno comunque dei limiti soprattutto in termini di durata della protezione offerta, almeno fino a quando tutti i vaccinabili non sono vaccinati è necessario continuare a mantenere le misure di distanziamento sociale e tracciamento.
Oggi affrontiamo un argomento diverso ma non meno importante, provando a rispondere alla domanda: a che punto sono le cure farmacologiche contro SARS Cov 2? Nel farlo, partiamo da due premesse fondamentali: a) non esistono ad oggi cure risolutive contro SARS Cov 2 e b) mettere in contrapposizione cure e vaccini, come alcuni gruppi no vax fanno, non ha senso.
Anche laddove esistessero cure risolutive – e, ribadisco, ad oggi non esistono – i
vaccini continuerebbero infatti a rappresentare comunque un presidio fondamentale, per il semplice motivo che le cure curano e i vaccini prevengono e prevenire è sempre meglio che curare. Del resto, per molte malattie abbiamo sia cure che vaccini ma ciò nonostante continuiamo a vaccinare: penso a molte
malattie batteriche per cui esistono gli antibiotici (haemophilus, pertosse, meningococco o pneumococco) o sieri (tetano, difterite) e anche ad alcune malattie virali rispetto a cui, seppure esistono farmaci antivirali discretamente efficaci (si pensi ad epatite B, influenza o varicella), continuiamo comunque a
vaccinare le persone.
Non solo. Pure rispetto a malattie per cui oggi abbiamo rimedi farmacologici
straordinariamente efficaci ma non ancora vaccini, come nel caso dell’epatite C, la ricerca va avanti per trovare dei vaccini, a dimostrazione del fatto che non c’è contrapposizione tra le due cose. Chiarito questo, è importante a questo punto ribadire che se è vero che non abbiamo delle cure risolutive, d’altro canto è pure vero che alcuni farmaci in qualche misura utili li abbiamo individuati.
Andiamo allora a vedere quali farmaci oggi noi medici abbiamo a disposizione per curare una persona che si ammala di Covid 19: in questa puntata di “Parole chiare in medicina” ci concentreremo in particolare sulle terapie che si possono somministrare prima del ricovero, mentre in una delle prossime puntate della rubrica parleremo più diffusamente delle terapie più utili nelle forme gravi di malattia.
Nel far ciò, come sempre, ci affideremo solamente a due cose: le linee guida che le agenzie del farmaco e le società scientifiche hanno stilato e gli studi pubblicati sulle riviste scientifiche internazionali. Concetti come “mio cugino ha sentito dire che…”, “il medico di mio cugino dice che…” in questa rubrica non hanno trovato, non trovano e non troveranno mai spazio.
Terapie sintomatiche domiciliari
Per seguire il discorso sulle cure, è necessario sempre tenere a mente che l’infezione da SARS Cov 2 può rimanere del tutto asintomatica e nel qual caso ovviamente non ha senso somministrare alcun farmaco, oppure può produrre dei sintomi. Nel caso di malattia sintomatica, che chiamiamo Covid 19, questa può risultare lieve (ciò avviene nella maggioranza dei casi) producendo sintomi simil-influenzali, moderata oppure grave; talora, purtroppo, può poi risultare fatale. A seconda del grado di malattia (lieve, moderato, grave) e dello stadio (precoce, intermedio e finale), le strategie terapeutiche divergono.
Nel caso, per fortuna prevalente, di malattia lieve gestibile a domicilio, l’AIFA
suggerisce paracetamolo o FANS in caso di febbre, dolori articolari o
muscolari, salvo i casi in cui queste medicine siano chiaramente controindicate (ad esempio in persone allergiche). L’acronimo FANS sta per farmaci anti-infiammatori non steroidei (cioè farmaci che combattono l’infiammazione e che non appartengono alla famiglia del cortisone per intenderci). Sono esempi di FANS l’aspirina o l’ibuprofene.
Ad oggi non ci sono grandi studi di comparazione diretta tra paracetamolo e
FANS, in particolare aspirina, per cui non abbiamo dati certi su quale sia la medicina migliore da somministrare. Alcuni Autori, come il professor Paolo Prandoni dell’Università di Padova, uno dei più grandi esperti al mondo di medicina vascolare, suggeriscono tuttavia che l’aspirina, in fase precoce, possa
avere un impatto positivo sulla prognosi finale e sia da preferire, giacché, diversamente dal paracetamolo che agisce solamente sui sintomi, l’aspirina ha anche un effetto cosiddetto antiaggregante, cioè è in grado di ostacolare l’aggregazione delle piastrine (NB: in clinica, tra i FANS, viene sfruttato l’effetto
antiaggregante solo dell’aspirina, mentre gli altri FANS – come l’ibuprofene o il ketoprofene – non vengono mai utilizzati a questo scopo, ma solo appunto come antiinfiammatori: le ragioni di ciò sono complesse e la loro illustrazione esula dallo scopo di questo articolo per cui non le tratteremo).
L’azione antiaggregante dell’aspirina nel contrasto alla malattia Covid 19 è un aspetto potenzialmente rilevante poiché l’aggregazione delle piastrine è una delle tappe del cosiddetto meccanismo di trombosi, overro uno dei meccanismi fisiopatologici che il Covid è in grado di innescare e che può avere effetti devastanti (basti pensare che l’ictus cerebrale e l’infarto cardiaco sono sottesi nella stragrande maggioranza dei casi da meccanismi pro-trombotici). E non è un caso che, come gli studi autoptici hanno dimostrato, molte volte sono proprio patologie trombotiche a livello dei vasi arteriosi o venosi che determinano la morte dei pazienti affetti da Covid 19.
Inoltre, al di là di queste considerazioni fisiopatologiche che da sole lasciano il tempo che trovano, ci sono effettivamente alcuni studi clinici che suggeriscono una qualche utilità dell’aspirina nelle fasi precoci di malattia. In particolare, uno studio osservazionale della George Washington University che ha incluso ben 34.675 pazienti con più di 50 anni, ha dimostrato che i soggetti affetti da Covid 19 che per ragioni varie (magari per la profilassi di ictus o infarto) assumevano prima di ammalarsi cardioaspirina o altri farmaci antiaggreganti (che nulla hanno a che fare con la famiglia dei FANS), nel momento in cui venivano ricoverati per Covid, presentavano una mortalità globale significativamente minore rispetto a quelli che non assumevano alcuna terapia antitrombotica prima del ricovero: precisamente la mortalità globale è risultata del 18.9 per cento per i soggetti che assumevano terapia antiaggregante (leggasi: aspirina e simili) prima del ricovero rispetto al 21.5 per cento riscontrata tra quelli che non l’assumevano.
Se vi sembra poco una riduzione assoluta del 2.6 per cento di mortalità, fate questo esercizio mentale: immaginate 1.000 persone ospedalizzate per Covid che non assumevano antiaggreganti prima del ricovero e 1000 che invece li prendevano: bene, alla fine, secondo questo studio, nel gruppo della terapia antiaggregante sopravvivono 26 persone in più. Rifate lo stesso esercizio mentale considerando numeri via via più grandi e vi renderete conto quanto, stando a questo studio, l’aspirina e altri farmaci antiaggreganti potrebbero essere utili.
Va precisato che questo studio ha grossi limiti, primo tra tutti il fatto che è retrospettivo; in secondo luogo, stima quanti morti si evitano tra quelli che alla fine vengono ospedalizzati, ma per esempio non è in grado di dire se l’aspirina e simili siano in grado di ridurre anche i ricoveri; infine, last but not least, questo studio ci suggerisce che potrebbe rivelarsi utile l’assunzione cronica di aspirina o altri prodotti con azione antiaggregante prima del ricovero, ma questo, di per sé, non equivale necessariamente a dire che somministrare precocemente aspirina nei malati di Covid sia di qualche aiuto, anche se è ragionevole
pensarlo.
Su questo specifico punto, ci vengono però in soccorso altri studi. Tra gli altri, merita menzione uno studio realizzato dallo stesso team di ricerca. In questo lavoro, gli scienziati hanno confrontato un gruppo di 98 pazienti che hanno assunto aspirina nei 7 giorni precedenti il ricovero o entro 24 ore dall’ammissione in Ospedale e un gruppo di 314 soggetti che nel medesimo
intervallo temporale non hanno assunto la medesima terapia. Ebbene, dopo un aggiustamento per alcune variabili di confondimento, l’uso dell’aspirina è risultato associato a una riduzione statisticamente significativa della necessità di ventilazione meccanica, di ricovero in Terapia Intensiva e di mortalità intra-ospedaliera.
Il lavoro, comunque, va detto, pur interessante, è stato realizzato su un campione relativamente piccolo di pazienti e da solo non può essere considerato sufficiente a dimostrare alcunché, ma insieme ad altri (si veda ad esempio questo recente articolo pubblicato su Plos One: https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC7877611/pdf/pone.0246825.pdf) può essere considerato come un tassello di un puzzle che nel disegno finale suggerisce che una pre-esistente terapia con aspirina e/o una somministrazione tempestiva di questo farmaco in uno stadio di malattia lieve o al più moderata
potrebbe essere di qualche aiuto, sebbene – lo si ribadisce- manchino ad oggi prove definitive a sostegno di questa tesi.
Riassumendo: chi dice (in alcuni gruppi di supporto alle terapie domiciliari è una specie di mantra!) “il paracetamolo è il veleno e i FANS sono la soluzione”, dice ovviamente una fesseria (il paracetamolo è infatti un farmaco sintomatico molto efficace e in generale estremamente sicuro). Viceversa, sostenere che
l’aspirina in particolare e non in FANS in generale possa essere un’opzione di terapia precoce da preferire al paracetamolo laddove non controindicata allo stato attuale delle conoscenze non è affatto assurdo, fermo restando che solo un grande trial (possibilmente in doppio cieco) aspirina vs paracetamolo potrebbe fare definitivamente chiarezza a riguardo.
Si badi bene: qui parliamo sempre e solo di terapie da somministrare in fase precoce, perché solo in questo contesto l’aspirina ad oggi parrebbe rappresentare un’opzione prognosticamente vantaggiosa. Laddove le condizioni cliniche siano compromesse, le evidenze disponibili suggeriscono invece che l’aspirina ha al più un ruolo sintomatico ma non migliora affatto la prognosi. A tal proposito, una meta- analisi di tre studi incentrati solo su pazienti ospedalizzati non ha infatti rilevato un effetto positivo dell’aspirina sulla
mortalità (NB: semplificando, per studio di meta- analisi, nel linguaggio scientifico, si intende uno studio che considera congiuntamente i risultati di tutti gli studi pubblicati fino a quel momento su un determinato argomento ed è considerato al vertice delle evidenze scientifiche).
Conclusione: a domicilio, per curare i sintomi del Covid sono utili o paracetamolo o FANS: tra tutte le opzioni disponibili, in un’ottica prognostica globale, probabilmente la migliore sembra essere l’aspirina, ma su questo aspetto i dati a disposizione al momento non possono in alcun modo essere considerati esaustivi e non c’è nessuna linea guida che ad oggi ne raccomandi l’uso in via privilegiata, per cui bisogna
attendere studi ulteriori prima di potersi pronunciare in modo definitivo sull’argomento.
I falsi miti sulle terapie domiciliari
Non ci sono invece prove solide di alcun tipo a sostegno di idrossiclorichina, vitamina D, azitromicina, integratori vari ed eventuali e di tutte le altre terapie che molti santoni hanno propagandato come cure domiciliari risolutive.
Relativamente all’idrossiclorochina, con buona pace di Salvini, grazie a due fondamentali studi pubblicati sulla “bibbia” della medicina ,il New England Journal of Medicine, oggi sappiamo che non è utile né da sola né in associazione con azitromicina nei pazienti ricoverati con infezione non grave e non è utile neanche come prevenzione dell’infezione nei contatti stretti dei positivi. Anche il trial Solidarity targato OMS e pubblicato sempre sul New England ha confermato l’inutilità del farmaco in un’ampia coorte di pazienti ricoverati che presentavano caratteristiche cliniche eterogenee (per intenderci, alcuni all’ingresso nello studio erano pazienti che necessitavano del ventilatore ed altri no, e in nessun gruppo il farmaco è risultato utile).
Uno studio pubblicato poi su Annals of Internal Medicine ha
dimostrato la completa inutilità dell’idrossiclorochina anche come terapia domiciliare precoce. In definitiva: l’idrossiclorochina non serve in nessun caso e in nessun contesto; inoltre tutti gli studi hanno segnalato la possibile tossicità del farmaco, soprattutto a livello cardiaco. Quindi: l’idrossiclorochina non solo è
completamente inutile ma è anche potenzialmente dannosa, quindi va assolutamente evitata.
Relativamente alla vitamina D e agli integratori multivitaminici, se da un lato alcune evidenze suggeriscono che la carenza di alcuni di questi elementi potrebbe associarsi ad una prognosi peggiore per cui è ragionevole intervenire con opportuna integrazione laddove si riscontri una significativa carenza di queste sostanze nell’organismo, non c’è evidenza alcuna, come chiaramente affermato nelle linee guida sulla nutrizione nei pazienti con Covid 19 pubblicate su Clinical Nutrition, che somministrare in tutti, indipendentemente dalla presenza o meno di malnutrizione, complessi multivitaminici, e in particolare vitamina D, sia d’aiuto.
Non c’è prova alcuna insomma che somministrare sempre prodotti
ricchi di vitamine sia utili ai pazienti mentre giova sempre certamente alle aziende che le producono visto che non sono affatto prodotti economici (ecco, diciamo che se fossi un complottista e per fortuna non lo sono rivolgerei la mia attenzione alle aziende che producono prodotti del genere e non certo a quelle che producono dei vaccini che ogni giorno salvano la vita a milioni di persone).
Ultimamente poi si è fatto un gran parlare di ivermectina, un efficacissimo farmaco antielmintico (cioè che agisce contro i vermi, in particolare contro un verme che è causa di una malattia chiamata cecità fluviale) che secondo alcuni studi preliminari potrebbe essere di aiuto nella lotta contro Sars Cov 2. A tal proposito, è intervenuta a fare chiarezza l’Organizzazione Mondiale della Sanità, che ha ribadito che se è utile continuare a fare ricerca su questo farmaco, non è al momento appropriato somministrarlo ai pazienti nella pratica clinica, visto che non ci sono dati sufficienti a supporto.
A conclusioni analoghe è giunta anche l’EMA, ovvero l’agenzia europea del farmaco, che ha ribadito l’opportunità di utilizzare l’ivermectina solo all’interno di trial clinici randomizzati e non nella routine clinica. Riassumendo: differentemente dall’idrossiclorichina che sappiamo che non serve niente e anzi è pericolosa, sull’ivermectina è opportuno continuare a studiare ancora ma da qui è dire che è l’arma finale nella lotta al Covid ci passa in mezzo l’Oceano Pacifico.
Anticorpi monoclonali
Giunti a questo punto della disamina sulle terapie somministrabili prima del ricovero, non possiamo non discutere di anticorpi monoclonali. Credo che chiunque ne abbia sentito parlare. La confusione in proposito regna sovrana, per cui proviamo a fare chiarezza. Gli anticorpi monoclonali sono degli anticorpi creati in laboratorio in grado di legarsi a Sars Cov 2. L’idea è: con questi anticorpi si blocca il virus e gli impedisce di fare danno. Sulla stessa logica si basa la famosa terapia del plasma iperimmune, cioè il plasma pieno di anticorpi ricavato da soggetti guariti dall’infezione che viene infuso nei malati e che alcuni complottisti rivendicano come l’arma finale contro il Covid che però – a detta loro – Big Pharma ci terrebbe nascosta.
Ecco, le cose non stanno affatto così. Chiariamo subito: né gli anticorpi monoclonali né il plasma iperimmune sono indicati nei pazienti ricoverati indipendentemente dallo stadio di malattia. Sulla base delle conoscenze attuali, non vanno somministrati cioè né nei pazienti ricoverati nei Reparti Ordinari né in quelli ricoverati in Terapia Intensiva. Su questo non abbiamo dubbio alcuno: a riguardo si veda a titolo d’esempio la nota AIFA sulle terapia ad oggi disponibili contro Sars Cov 2, in cui è espressamente ribadita l’inappropriatezza degli anticorpi monoclonali nei pazienti ospedalizzati e le linee guida congiunte della società italiana di malattie infettive e di pneumologia, in cui viene espressa una chiara contrarietà sia all’uso del plasma sia all’uso degli anticorpi monoclonali nel contesto dell’ospedalizzazione.
Differentemente però dal plasma iperimmune per cui non ci sono evidenze convincenti neppure nelle fasi precoci di malattia, come suggerito anche dal recente trial SIREN pubblicato sul New England che ha avuto esito negativo oltreché da una accuratissima meta-analisi della Cochrane per cui il plasma non è previsto ad oggi come terapia anti Covid da nessuna linea guida, nel caso di alcuni anticorpi monoclonali – nello specifico, la combinazione bamlanivumab-etesivimab prodotta da Eli-Lilly e la combinazione casirivimab-imdevimab prodotta da Regeneron/Roche, cui recentemente si è aggiunto sotrovimab dell’azienda Glaxosmithkline -, ci sono forti evidenze che ne supportano una buona efficacia se somministrati nella fase precoce di malattia nel ridurre sia il tasso di ospedalizzazione che la mortalità per Covid 19. A proposito dell’anticorpo prodotto da Eli-Lilly, le evidenze disponibili suggeriscono che il
farmaco se somministrato in soggetti non ospedalizzati entro 3 giorni dall’esordio dei sintomi è in grado ridurre la carica virale rispetto al placebo; il medicinale inoltre ha mostrato di avere un impatto clinico molto positivo nei pazienti gestiti ambulatorialmente in termini di riduzione del tasso di ospedalizzazione e di morte (riduzione del rischio relativo del 70 per cento).
A proposito dell’anticorpo della Regeneron/Roche, sappiamo che se somministrato precocemente riduce significativamente la durata di malattia rispetto al placebo e il vantaggio è chiaramente dimostrato specie nei pazienti con molte comorbidità, ovvero che avevano già delle patologie prima di ammalarsi.
Va segnalato poi un recente trial pubblicato sul New
England Journal of Medicine che ha confrontato l’efficacia dell’anticorpo monoclonale della Regeneron-Roche rispetto al placebo in un gruppo di contatti stretti di infetti da Sars Cov 2 trattati entro 96 ore dall’avvenuto contatto. I risultati hanno dimostrato la capacità dell’anticorpo di ridurre il rischio globale di infezione sintomatica e asintomatica del 66.4 per cento e di
ridurre il rischio di sviluppare la forma sintomatica di malattia del 92.6% rispetto al placebo.
Risultati ottimi, che aprono la strada anche all’uso degli anticorpi monoclonali come misura preventiva in contatti stretti di soggetti positivi ad alto rischio di sviluppare una forma grave di malattia (si pensi a soggetti anziani fragili o
soggetti immunodepressi). Recentemente anche per Sotrovimab sono stati raccolti dati positivi nei pazienti non ospedalizzati (studio COMET-ICE, non ancora pubblicato ma a disposizione delle agenzie del farmaco), per cui il medicinale è stato recentemente autorizzato in Itala.
In definitiva, l’AIFA, dopo aver raccolto tutte le evidenze disponibili, ha autorizzato l’uso di questi anticorpi monoclonali nei soggetti positivi a Sars Cov 2 non ospedalizzati, non in ossigenoterapia, con uno o più fattori di rischio di sviluppare la forma grave di malattia (età avanzata, immunodepressione,
broncopneumopatia cronica ostruttiva, eccetera). Nel caso specifico dell’anticorpo Regeneron- Roche (ma non per gli altri), dati ricavati dallo Studio Recovery hanno suggerito un’efficacia del farmaco anche in pazienti
ospedalizzati in ossigenoterapia a bassi flussi e con sierologia negativa per anticorpi anti SARS Cov 2 (per intenderci, il discorso non vale per i pazienti in ventilazione meccanica), per cui recentemente AIFA ha esteso l’indicazione anche a questo sottogruppo di pazienti.
Da quanto detto finora, si ricava allora che effettivamente gli anticorpi monoclonali possono essere d’aiuto nella lotta al Covid, ma non bisogna dimenticare mai che presentano forti limitazioni: 1) servono solo se somministrati precocemente, mentre, per quanto ad oggi noto, non sono indicati nelle formi gravi e avanzate di malattia; 2) sono molto costosi, molto più dei vaccini; 3) non sono disponibili per tutti; 4) presentano un’efficacia variabile rispetto alle varianti: in particolare, nel caso dell’anticorpo Bamlanivimab-
Etesivimab di Ely Lilly è stata osservata una scarsissima efficacia nei confronti delle varianti beta e gamma, per cui non andrebbe usato nei contesti in cui queste varianti sono diffuse. Insomma, concludendo: benissimo gli anticorpi monoclonali, usiamoli tutte le volte che servono e continuiamo a fare ricerca su di essi, ma al momento non presentiamoli come una panacea.