Quanto vale davvero uno di quei gamberi crudi che ci mettono nel piatto i ristoranti stellati? Vale una vita, vale un sequestro, vale un colpo d’arma da fuoco, mentre stai lavorando. Da settembre ferimenti e aggressioni, oltre che un rapimento, hanno colpito i pescatori di gamberi rossi di Mazara del Vallo, arrivati ormai ai ferri corti con la Libia. “È un mese che ci hanno sparato addosso e nessuno ci ha spiegato ancora il perché. Volevano ucciderci per mandare un segnale all’Italia”. Come si è arrivati a questa situazione? Che interessi ci sono dietro?
Gambero di Mazara, indivia, coulis di limone e cialda alla paprika. Oppure spaghetto con gamberi rossi, liquirizia e mandorla salata. E ancora crudo di gamberi, piselli, bottarga e umeboshi. Potrei sembrare un po’ come “Bubba”, l’indimenticabile spalla di Forrest Gump, che nell’omonimo film ripeteva in continuazione, come un mantra, solo ricette a base dei gamberi. In realtà sono semplicemente online a saltare da un menù all’altro, tra i ristoranti in cui sogno di andare ora che navighiamo verso il porto “sicuro” delle zone bianche. E più o meno ad ogni pagina mi ripeto: ma questi benedetti gamberi rossi di Mazara del Vallo, che da qui a settembre troneggiano ovunque accompagnati da cifre da capogiro, quanto diavolo costano? Tanto. E se anche dopo un anno di pandemia mi sentissi pronta a sfornare da me ricette da stella Michelin e andassi in pescheria, pure lì la risposta sarebbe sempre la stessa: si va dai 50 ai 60 euro al chilo.
Il motivo è semplice. Ci sono solamente un’ottantina d’imbarcazioni in Italia che si occupano di pesca a strascico del famoso gambero. E sono tutte di Mazara del Vallo. Stanno al largo anche un mese, vanno a recuperare questo oro rosso a 700 metri di profondità, per poi raccogliere un bottino che frutta 200 milioni di euro l’anno e dà lavoro a quasi diecimila persone. Cifre che pesco direttamente dalla bocca dal sindaco, Salvatore Quinci, che sa bene che l’indotto del suo paese, 50mila abitanti, ruota praticamente attorno ai gamberi rossi.
Bello, bellissimo, penserà qualcuno: un’eccellenza da raccontare, una specialità da tutelare, un po’ come facciamo con il pomodoro di Pachino, il tartufo di Alba e così via. Se non fosse che qui i pescatori non organizzano tour enogastronomici o attività turistiche: loro escono di casa e non sanno se ci rientreranno. Sono letteralmente dentro a un guerra che oggi è diventata insostenibile, perché ormai fuori dal loro controllo.
Si rischia di finire per esempio come Michele Trinca, pescatore di Mazara, che insieme ad altri 18 compagni per 108 giorni è stato in una prigione libica ed è tornato a casa dalla figlia Ilaria con 15 kg in meno, senza la fede nuziale (“gli hanno rubato anche quella”) e nella testa l’immagine di quando, fatto spogliare, l’hanno messo contro un muro, nudo, con i fucili puntati addosso. Solo per mettergli paura.
“Già il suo è un lavoro pericoloso, perché si vive per giorni in mare, in balia delle onde – confessa ancora Ilaria, 26 anni, la figlia di Trinca – ma mai ci potevamo aspettare questo orrore”. Michele, una volta liberato, ha raccontato tutto, poco alla volta. “Sono stati sequestrati dai libici e spostati in tre carceri diversi, lasciati al buio per mesi, senza potersi mai cambiare. Davano loro poco o niente da mangiare: latte scaduto che ha fatto ammalare mio padre. Ha pregato che lo portassero in ospedale, ma non è stato ascoltato. Tutti qui in Italia continuavano a ripetermi di non preoccuparmi, che stava bene, che era in un albergo. Mi è bastato un secondo, appena l’ho visto tornare, per capire che le cose non erano andate proprio così”.
Ma andiamo con ordine: c’è stato quel sequestro, finito poco prima di Natale, con il ministro degli Esteri Luigi Di Maio e l’allora presidente del Consiglio Giuseppe Conte che recuperano a Bengasi i nostri pescatori, come il papà di Ilaria. Distrutti e derubati. All’epoca si parlava ancora di un incidente diplomatico. Ma sono passati pochi mesi e di nuovo ora, da maggio, è ricominciato quel clima di terrore che non fa dormire parenti e amici dei pescatori. Poche settimane fa un’imbarcazione è stata presa a sassate, fumogeni e infine è stata speronata da motopesca turchi. E due pescherecci, l’Aliseo e l’Artemide, della famiglia Giacalone, ovviamente di Mazara, sono stati presi a mitragliate da militari libici.
“Mio padre Giuseppe – racconta Alessandro Giacalone – era al comando del nostro peschereccio, a 50 miglia dalla Libia, quando lo chiama la Marina Militare e gli dice di non fermarsi a pescare, ma di spostarsi verso Nord, direzione Grecia. Lui è tranquillo perché pensa non possa succedergli nulla, con alle spalle la Marina Militare. C’era persino un elicottero italiano che lo seguiva nella navigazione”. Passa un’ora e una motovedetta libica gli si affianca. “Mio padre allora chiede alla Marina Militare cosa fare. Gli dicono di continuare a navigare, ma i libici a quel punto iniziano a sparare”. Non sono colpi di avvertimento verso l’alto: “Mirano per uccidere, puntano all’altezza dell’area di comando. Colpiscono mio papà che a quel punto ferito si ferma e fa salire a bordo i militari libici”. Ma si è capito perché hanno aperto il fuoco? “No, questo qualcuno ce lo deve ancora spiegare. È passato quasi un mese, mio padre ha da poco tolto la benda bianca dalla testa, ma ancora si ripete che ha visto l’inferno, che lì solo per miracolo non è morto. Abbiamo sostituito le vetrate, le lamiere forate da almeno 80 proiettili che hanno distrutto anche diversi strumenti di bordo”. Un danno per 80mila euro, che per Alessandro Giacalone è “un chiaro segnale dato all’Italia”.
Ma cosa sta succedendo? E di quale segnale stiamo parlando? Secondo il sindaco di Mazara, “tre indizi fanno una prova” o meglio: “tre episodi simili in poco tempo, il sequestro e le due aggressioni, ci dicono che ci sono tensioni politiche troppo forti nel Mediterraneo e che i pescatori ci sono finiti in mezzo. Sono stati come bullizzati”. È appena stato a Roma per chiedere aiuto e metter fine a quella che ormai in paese tutti chiamano “la guerra del gambero”.
Va detto che la Libia è dal 2005 che rivendica quella zona di pesca a 62 miglia dalle proprie coste, in quelle che – secondo l’Europa – sono invece acque internazionali. Ma è ormai chiaro a tutti che non si sta più parlando “solo” di atti di pirateria e che i nostri pescatori, a loro rischio e pericolo, stanno navigando da mesi in acque burrascose, mosse dalle tensioni tra Italia, Libia e Turchia. Cosa c’entri la Turchia nel rapporto Italia-Libia è presto detto: Ankara in questo momento ha una forte influenza su Tripoli e da tempo cerca di intestarsi un ruolo di primo piano sul territorio, minando così l’equilibrio precario del Mediterraneo.
Qualche settimana fa anche il ministro degli esteri Luigi Di Maio ne ha parlato in aula proprio nel corso di un’informativa sulla sicurezza nel Mediterraneo e la situazione in Medio Oriente. Le sue parole in aula fanno seguito a una risoluzione presentata alla Camera sempre dal M5S, con la richiesta che si proceda presto a un tavolo diplomatico che metta insieme tutte le parti in causa, da Mazara a Tripoli. Se ne parla da mesi, cercando di coinvolgere anche Bruxelles, senza però mai aver fissato una data.
Nel frattempo c’è stato il “sofa gate”, con l’imbarazzo generale di mezzo mondo per Ursula von der Leyen, a cui sono seguite le dure parole di Mario Draghi nei confronti del presidente turco, Recep Tayyip Erdogan, definito apertamente “per quello che è, un dittatore”, usando le stesse parole del nostro presidente del Consiglio. Un colpo che Erdogan ha definito “un’ascia nelle relazioni tra Italia e Turchia”. Era metà aprile. E quindici giorni dopo sono ricominciati gli attacchi ai pescherecci di Mazara che si trovavano tra Italia e Libia.
“È chiaro che i rapporti si siano deteriorati per via della Turchia che ora vuole un ruolo da leader regionale ed è in piena fase di espansione con l’obiettivo di creare nuovi equilibri nel Mediterraneo”. È la ricostruzione che fa anche il generale Leonardo Tricarico, ex Capo di stato maggiore dell’Aeronautica, oggi presidente della fondazione Icsa. “Ci troviamo nell’assenza e nell’inattività dell’Europa e dell’Italia in particolare, perché non andiamo oltre alle semplici dichiarazioni, ci muoviamo senza che ci sia un atto concreto”.
A questo si aggiungano gli interessi economici che da una parte e dall’altra, Turchia e Italia, hanno in gioco con la Libia. Ankara ha siglato una serie di impegni come la costruzione di tre centrali elettriche, di uno scalo aereo a Tripoli, di un enorme centro commerciale e nell’aumento del valore dell’import-export tra le due nazioni che si sarebbe assestato sui 5 miliardi. Poi ci sono i nostri sforzi: a fine maggio Di Maio è volato per la nona volta a Tripoli e tre giorni dopo a Roma si è tenuta la tanto attesa visita del premier libico Abdel Hamid Dbeibah con la sua squadra di governo che, oltre a incontrare il presidente del Consiglio, ha incontrato anche le principali aziende italiane per rilanciare la loro presenza in Libia (Snam, Saipem, Terna, Ansaldo Energia, Fincantieri, PSC Group, Italtel, Leonardo, WeBuild, Gruppo Ospedaliero San Donato, Cnh Industrial, Eni). “Quello tra Italia, Libia e Turchia sta diventando sempre più un discorso a tre, che dovrà avere però come perno il nuovo governo libico. Chiunque si metta oggi contro la Turchia sbaglia”, chiosa Tricarico.
Davanti a tutto questo, per tornare ai nostri pescatori, mi viene in mente che la taverna dove il Gatto e la Volpe portano Pinocchio si chiama “L’osteria del Gambero rosso”. Non ho idea di cosa avesse in mente Carlo Collodi, ma a me viene da pensare che Mazara del Vallo, come quel più famoso burattino, faccia ormai parte di un “teatrino” più grande. “Eppure noi non possiamo far altro che uscire in mare: non abbiamo altro tempo, né altre opzioni. Altrimenti come li portiamo a casa i tanto richiesti gamberi rossi?”. È arrabbiato Marco Marrone, lui è l’armatore di uno di quei due pescherecci sequestrati in Libia e per tutto il tempo del rapimento dei compagni ha alternato manifestazioni di piazza, cortei con tanto di nottate in tenda davanti a Palazzo Chigi. L’ho rintracciato per riuscire a parlare con il papà di Ilaria, quel Michele Trinca, e capire come stava ora a distanza di qualche mese dal ritorno a casa, mentre è costretto a vedere un copione che continua a ripetersi. “Mi spiace è irraggiungibile. È uscito in mare. Starà via per giorni. Ha detto che aveva bisogno di tornare a navigare per non pensare più”.
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