L’esperienza maturata dalla Cina e le raccomandazioni dell’Organizzazione mondiale della Sanità (Oms) spingono l’Italia e il resto del mondo a prepararsi adeguatamente all’emergenza coronavirus, senza trascurare gli effetti e le ricadute della crisi dei contagi sull’intero sistema Paese. Uno dei più importanti aspetti riguarda i rifiuti ospedalieri, già aumentati del 20 per cento a causa dell’emergenza e che, nonostante il contesto difficile, finora il nostro Paese riesce a smaltire. Tuttavia, le capacità di un sistema che ha già dimostrato tante criticità saranno messe duramente alla prova in caso di probabile prolungamento dell’emergenza. Sono infatti soltanto una ventina gli impianti autorizzati in Italia a smaltire i rifiuti pericolosi a rischio infettivo, a costi tra l’altro molto elevati per il sistema, dovuti anche ma non solo a una disomogenea dislocazione sul territorio nazionale.
Gli scarti della sanità rientrano nella categoria dei rifiuti speciali, insieme a quelli prodotti dalle industrie. Per questo, come spiega il Rapporto 2019 di Assoambiente, l’Associazione che rappresenta a livello nazionale e comunitario le imprese private che gestiscono servizi ambientali, a differenza dei rifiuti urbani, la gestione dei rifiuti speciali, che costituiscono la quota più significativa della produzione complessiva di scarti a livello nazionale, “risponde a logiche di libero mercato”, viste le “soggettive responsabilità in capo al produttore” e le “gestioni mirate in relazione alla tipologia dei rifiuti e agli specifici trattamenti necessari” per smaltirli. Insomma, visto che il grosso di questi scarti è prodotto da aziende private, il loro smaltimento è affidato ad altri soggetti privati, il cui obiettivo resta il profitto, e che devono coprire costi variabili in base alla natura del materiale trattato. Ma di che cifre parliamo nella sanità?
Secondo gli ultimi dati dell’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale (Ispra), tra pubblico e privato, nel 2017 l’Italia ha prodotto oltre 179 mila tonnellate di rifiuti speciali provenienti “dal settore sanitario e veterinario o da attività di ricerca collegate”, di cui oltre 160 mila tonnellate pericolosi, pari a più dell’89 per cento. Una buona parte di questi ultimi risultano poi a rischio infettivo con un costo di incenerimento superiore ai 2.000 euro per tonnellata. Sebbene questi scarti non rappresentino più del 25 per cento di tutti i rifiuti prodotti dal sistema sanitario nel nostro Paese, gli alti costi di gestione pesano per quasi l’80 per cento sulla spesa complessiva dedicata. In conformità alla normativa vigente infatti, il sistema sanitario e le aziende, quasi tutte private, responsabili insieme della produzione, della sterilizzazione, del trasporto, dello stoccaggio temporaneo e dello smaltimento di questi scarti devono farsi carico di una serie di cicli e procedure piuttosto onerose.
Prima di essere avviati allo smaltimento, i rifiuti sanitari pericolosi a rischio infettivo sono infatti sottoposti a un processo di sterilizzazione, che consiste nell’abbattimento della carica microbica contenuta negli stessi, oltre alla riduzione del peso e del volume. Nonostante il decreto del Presidente della Repubblica n. 254 del 2003 lo consenta, quasi nessun ospedale in Italia possiede impianti di sterilizzazione all’interno del proprio perimetro o in strutture decentrate collegate, un fatto che aumenta i costi di smaltimento. La legge citata prevede infatti questa possibilità “come opzione e non già come obbligo”, come spiegato a gennaio in parlamento dal sottosegretario all’Ambiente, Roberto Morassut. Eppure, secondo una proposta di legge depositata alla Camera nel 2017 e ancora nel 2018 dal deputato del Movimento 5 Stelle, Alberto Zolezzi, “esperienze nazionali e internazionali (anche con brevetti italiani) di sterilizzazione in sito dei rifiuti ospedalieri infettivi e non radioattivi (…) hanno dimostrato la possibilità di ridurre il volume dei rifiuti da smaltire di circa il 30 per cento, (…) riducendo di oltre il 50 per cento il costo della gestione totale”.
A prescindere dalla sterilizzazione, gli ospedali devono poi comunque farsi carico del deposito temporaneo, della movimentazione interna alla struttura, della raccolta e della consegna di questi scarti all’azienda responsabile dello smaltimento, assumendosi maggiori oneri economici e non solo in tempi di restrizioni dovute all’epidemia. Ma non è solo una questione di costi, aumentati vieppiù dalla necessità di spostare maggiori volumi di rifiuti, ma anche di sicurezza dei trasporti, dovuto in alcuni casi alle lunghe distanze da percorrere. In assenza di un impianto di sterilizzazione in prossimità dell’ospedale, i rifiuti raccolti presso la struttura sanitaria sono infatti spediti in centri di trattamento o di smaltimento e, a differenza dei rifiuti urbani, questo genere di trasporti è autorizzato anche al di fuori della regione dove sono stati prodotti gli scarti, e per un motivo ben preciso.
Nel caso dei rifiuti sanitari a rischio infettivo, questi devono essere direttamente trasferiti in appositi impianti di incenerimento autorizzati, pari a circa la metà dei 37 termovalorizzatori in servizio in Italia, non presenti in tutte le regioni e che, stando all’esperienza cinese, dovranno ora prepararsi ad aumentare la propria capacità di smaltimento. Secondo l’ultimo Rapporto sul recupero energetico da rifiuti in Italia, elaborato da Utilitalia e Ispra, nel 2017 i termovalorizzatori autorizzati hanno smaltito 34.900 tonnellate di rifiuti sanitari, pari a meno di 100 tonnellate al giorno. Se l’emergenza coronavirus dovesse aggravarsi o proseguire nel tempo, il conseguente aumento dei volumi di rifiuti ospedalieri richiederà un maggiore sforzo da parte di questi impianti. Al momento, l’unico Paese di riferimento resta la Cina, verso cui l’Italia si sta muovendo sempre più sia per numero di contagi ma soprattutto di decessi. A questo proposito, l’esperienza maturata da Pechino suggerisce la necessità di aumentare quantomeno del 20 per cento la capacità dei termovalorizzatori, se non molto di più.
Secondo i dati diffusi dal ministero dell’Ecologia e dell’Ambiente di Pechino, durante l’epidemia di COVID-19 la Cina ha smaltito 159 mila tonnellate di rifiuti sanitari, aumentando la propria capacità di smaltimento di questi scarti da oltre 4.902 a più di 6.058 tonnellate al giorno in tutto il Paese. La sola provincia dello Hubei, con una popolazione paragonabile in termini numerici a quella dell’Italia e il cui capoluogo Wuhan ha finora rappresentato il maggior focolaio mondiale del nuovo coronavirus, ha dovuto più che triplicare la propria capacità di smaltimento dei rifiuti sanitari, passando da 180 a oltre 667 tonnellate al giorno. Se dovessimo seguire la sorte della provincia cinese più martoriata dal virus, potremmo trovarci a dover smaltire oltre tre volte il volume di rifiuti ospedalieri odierno, già aumentato dall’inizio della pandemia.
Diverse regioni sembrano però impreparate a gestire questa eventualità e dovranno nel caso fare affidamento sui trasporti in altre parti del Paese, considerando infatti che tra i rifiuti sanitari smaltiti nel 2017, ben 33.700 tonnellate, pari al 96 per cento, sono state bruciate negli impianti del nord. Secondo il presidente di Assoambiente, Chicco Testa, “fortunatamente la
regione Lombardia”, la più colpita dall’emergenza COVID-19, “ha una dotazione impiantistica in grado di fronteggiare l’emergenza”, mentre FISE Unicircular e FISE Assoambiente denunciano insieme come “le aziende attive nella gestione dei rifiuti ospedalieri abbiano triplicato le attività dall’inizio dell’epidemia” e che “il sistema è quasi allo stremo e rischia di collassare nel giro di pochi giorni, senza un adeguato supporto e riconoscimento da parte delle Istituzioni”.
Eppure la produzione di questi scarti non è certo trascurabile nel resto del Paese. Secondo i dati Unioncamere, la sola Campania produce ogni anno oltre 12 mila tonnellate di rifiuti sanitari, “esportandone” quasi 9 mila, mentre l’Emilia Romagna ne “importa” 33 mila a fronte di una produzione di poco più di 15 mila tonnellate. Il problema riguarda quindi la distribuzione di questi impianti. Dei 37 inceneritori con recupero energetico attualmente attivi nel nostro Paese, 26 si trovano al nord, 5 al centro e 6 al sud. La disomogenea dislocazione degli impianti di incenerimento in esercizio sul territorio nazionale potrebbe mettere a repentaglio le capacità di smaltimento soprattutto nel centro-sud in caso di forte aumento dei casi di contagio e di conseguenza del volume dei rifiuti sanitari a rischio infettivo, costituendo un’ulteriore minaccia.
Pur tralasciando poi i vari scandali legati alla gestione dei rifiuti, il traffico illegale e le legittime preoccupazioni della cittadinanza circa gli effetti ambientali di tali impianti, un’altra questione potrebbe riguardare la biosicurezza di alcuni termovalorizzatori. La gran parte del relativo mercato italiano è controllato da Eco Eridania Spa, operatore europeo leader nella gestione dei rifiuti sanitari che smaltisce circa la metà della produzione di questi scarti in Italia. Soltanto a novembre, uno degli impianti dell’azienda, l’inceneritore ex Mengozzi di Forlì, è salito alla ribalta delle cronache nazionali dopo che due delle sue quattro torri di raffreddamento sono state bloccate per una concentrazione di legionella oltre i limiti ammessi dalla legge.
Sebbene la ditta si sia successivamente attenuta alle disposizioni di un’ordinanza regionale, applicando la disinfezione con biocida appropriato di tutte le torri dell’impianto, il caso fa comunque temere per la biosicurezza di alcuni termovalorizzatori, soprattutto in un momento di grave emergenza contro un virus ancora poco conosciuto e che potrebbe aumentare sensibilmente la produzione nazionale di rifiuti sanitari a rischio infettivo. Visto il carattere emergenziale assunto dalla gestione dei rifiuti in Italia negli ultimi 20 anni, le croniche carenze del sistema, nonostante l’arduo lavoro svolto dalle Arpa e dalle Asl regionali, e l’esempio di altri Paesi coinvolti nell’epidemia, dovremmo tornare a prestare attenzione alla questione dello smaltimento, parte inscindibile dell’emergenza sanitaria in corso.
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